A te navigante...

A te navigante che hai deciso di fermarti in quest'isola, do il benvenuto.
Fermati un poco, sosta sulla risacca e fai tuoi, i colori delle parole.
Qui, dove la vita viene pennellata, puoi tornare quando vuoi e se ti va, lascia un commento.

martedì 25 giugno 2013

Vecchie fotografie



Un mucchio di vecchie foto troneggia sulla mia scrivania. Mentre le osservo una per una, vengo presa dalla tristezza, quante vite passate in un soffio, ormai finite, di cui restano attimi fissati sulla pellicola.
Delle persone ritratte, quasi nessuna ormai esiste più. Cosa pensavano mentre immobili fissavano l’obiettivo? Magari non riuscivano a star ferme, sperando che il tutto finisse al più presto. Forse, stavano già immaginando la foto che sarebbe uscita fuori dalla pellicola.
Storie lontane, protagonisti: nonni che sarebbero ora ultracentenari, orgogliosamente in posa nella divisa della prima guerra mondiale, giovani pieni di vita e di speranze, costretti al fronte, rischiando la vita attimo per attimo. Nel momento in cui la loro immagine veniva impressa per i posteri e lì sarebbe rimasta immobile per sempre, avranno anche pensato che forse non sarebbero mai più tornati vivi.
Una prozia, sempre vestita alla moda, seduta con aria nobile, un bouquet di rose poggiato sulle gambe con finta noncuranza, che guarda lontano mostrando indifferenza, indossa un cappello a larghe tese di pizzo e le scarpe stile chanelle.
Continuo a sfogliare, ecco la stessa prozia, che io ho conosciuto quando ero piccola e che ricordo molto vecchia, incerta nel camminare, usava un bastone di ebano nero con il manico ricurvo d’argento. Nella foto che ora sto guardando, invece, è giovanissima, neanche si riconosce, posa in piedi tutta vestita di bianco, una gonna a pieghe ne fascia i fianchi, e lei poggiando il gomito su un tavolino alto, di quello usato dai fotografi, ricoperto di pelliccia, sembra uscire fuori da un finto fondale con fiori dipinti, un’immagine che esce direttamente dal secolo scorso, sarà stato il secondo decennio del 1900, suo anno di nascita. Lo sguardo è dolcemente assente, vorrebbe forse sorridere, ma l’espressione che le rimane sul volto, resta seria, pensierosa, la posa, probabilmente, sarà stata provata e riprovata prima dello scatto, risultando alla fine un po’ troppo innaturale, simile a quei ritratti ottocenteschi che troneggiavano nelle case nobili. La fotografia ha dato anche ai meno ricchi, la possibilità di vedersi appesi alle pareti delle loro dimore. L’immagine è ormai ingiallita, un color seppia, che le dona una patina di antichità ma anche di eternità, la bella ragazza ritratta è sopravvissuta alla ragazza in carne ed ossa, già sepolta da moltissimi anni.
Era la sorella minore di mio nonno Riccardo. Da quanto mi hanno raccontato, è sempre stata una persona che teneva molto nel vestire, sempre elegantissima, lo si nota anche dalle poche fotografie rimaste. Per molti anni, fu la responsabile del reparto sartoria alla Rinascente di piazza Fiume.


Continuando a rovistare, con sorpresa, nel mucchio di vecchie fotografie, ecco spuntarne una piccolissima, si vedono appena le persone ritratte in divisa militare della grande guerra. Indossano i tipici elmetti bombati con la tesa rigida spiovente. Tra le mani, spuntano alcune lettere. Probabilmente lettere delle loro innamorate, che stavano aspettando con ansia, oppure notizie della loro famiglia, racconti di vita quotidiana, riassunti in poche righe, forse dettati, perché l’analfabetismo era molto diffuso nell’Italia di quegli anni.
Una di queste figure, è seduta su un masso e legge tutta intenta, incurante dell’obiettivo che li sta immortalando per la storia. Alcuni in piedi altri sorridono guardandosi l’un l’altro. Su retro della foto una dedica a mio nonno, datata 1917 e scritta da un suo amico di nome Alfredo in una calligrafia un po’ pomposa con una stilografica od un pennino nero.
Quante di quelle persone ritratte nella foto saranno tornate a casa, come mio nonno, che vita avranno avuto, quanti figli, quale lavoro avranno svolto? Tutte domande che rimarranno senza risposta, restando una mia  curiosità insoddisfatta, velata di  malinconia e tristezza per tante vite spente ormai, di cui nessuno conosce più neanche il nome.





 

Ho deciso di convertire queste vecchie foto, di quasi un secolo, alla nuova tecnologia, le copio ad una ad una, nel mio computer, perché molte, sono già tanto rovinate, alcune rischiano di perdersi con l’inarrestabile passare degli anni. Cerco di ricostruire i nomi, a volte anche le storie, perché non voglio che con l’estinzione delle vecchie generazioni, quelle nuove non sappiano neanche più a chi appartengano quei volti, chi erano, quale vita si cela nelle loro espressioni, quale legame di sangue ci lega tutti.
Ne prendo un’altra, il fratello della nonna paterna. Anche lui conosciuto da piccola, lo ricordo vagamente, quando veniva a trovarci. Non si sposò mai, come l’altra sorella Ines.
Zio Dante e zia Ines, i fratelli di mia nonna Margherita, vivevano assieme alla loro madre, nel quartiere di S. Lorenzo a via del Volsci, strada storica, che sarebbe diventata famosa negli anni di piombo: gli anni ’70 per le lotte tra fazioni politiche opposte.
Durante il bombardamento del 19 luglio del 1943, rimasero seppelliti per diverse ore sotto le macerie della loro casa, che fu poi in seguito ricostruita.
Ricordo che mio padre, quando ero piccola, mi portava a trovarli. Arrivare lì dalla Garbatella era un viaggio.
La cosa che ricordo di quella casa, era che, non vi era ingresso, aperta la porta di casa, ci si trovava davanti ad uno stanzone, con una finestra che dava su un cortile, arredato con vecchi mobili, non tanti per la verità, ricordo forse una vetrinetta con le suppellettili di casa. C’era un bagno piccolissimo, ricavato dal balcone, come nelle vecchie case del secolo scorso, quando i bagni non esistevano, ed infine una piccola camera da letto.
Papà era molto affezionato ai suoi zii, che per il tempo dei bombardamenti e finchè non ebbero ricostruito il palazzo abitarono con la sua famiglia.
Loro lo consideravano un po’ anche un loro figlio.
Nella foto che ho tra le mani, zio Dante, risulta un bel giovane, vestito con la divisa dell’aeronautica della prima guerra mondiale, con tanto di giubbotto doppio petto, di pelle nera, guarnito con un collo di pelliccia dello stesso colore. Un paio di pantaloni al ginocchio e stivali ai piedi.
 



Alle sue spalle, un aereo della prima guerra mondiale, a terra, sulla cui ala spicca il cerchio con il tricolore, vanto di un’Italia che combatteva per la sua ultima riunificazione. Zio Dante, è un po’ imbronciato,  guarda oltre l’obiettivo, con le mani sui fianchi, posa orgogliosamente ma con aria indifferente.  Sul retro una dedica a mio nonno, suo cugino di primo grado, scritta con un tono formale e pomposo, uno stile che oggi fa sorridere, mentre la D maiuscola di Dante è preceduta da una P (il cognome) tutta riccioli, stile vecchia scuola calligrafica, l’anno: il 1919. Sono anni che per me assumono un significato soltanto attraverso i libri di storia, ma hanno segnato la vita delle persone che erano dentro alla guerra.  Immagino i treni a vapore, che sbuffando partivano verso il fronte, i vagoni strapieni di giovani vite, che si facevano coraggio cantando goliardicamente, mentre il treno rumorosamente partiva, strappandoli ai loro affetti, alle fidanzate in lacrime, alle madri disperate che agitavano i fazzoletti in segno di saluto.
Il treno, questo mezzo di trasporto che ha attraversato non soltanto in lungo ed in largo la nostra Penisola, ma anche il tempo. Ha rappresentato una fetta importante della storia di famiglia, legata allo sferragliare dei locomotori, mio nonno ne era un conducente, all’odore di ferro dei freni, che si imprimeva nei vestiti. Eccola qui la foto di nonno Riccardo, che posa orgogliosamente in divisa delle ferrovie, in testa un classico berretto da ferroviere, una mano sul fianco, con un piede sul predellino del locomotore, l’altra mano aggrappata all’asta di sostegno, nell’atto di salire sul treno.
Per anni ha guidato i treni in giro per l’Italia, un periodo è vissuto in Calabria. Durante il boom delle spiagge di Ostia, quando era meta dei ricchi dell’epoca fascista, lui, orgoglioso li portava lungo la Roma-Ostia a destinazione, chiudendo le porte del treno al primo fischio del capostazione.
Di nonno ferroviere restano anche altre fotografie, scattate nella sua lunga carriera alle ferrovie dello stato: FS come si legge  sui treni ritratti.
In una è in piedi sul predellino di una vecchia locomotiva a vapore, si vedono le due ciminiere sullo sfondo, il treno è ovviamente fermo, non c’è vapore, ma immagino il rumore, l’odore di fuliggine che si attaccava addosso alla sua uniforme. Cerco nel mucchio, non riesco a trovarla, ricordo però che ce n’era un’altra, una foto ufficiale di qualche inaugurazione, vi figurano dirigenti, tutti in giacca e cravatta, con in testa il borsalino, icona degli anni trenta, nonno è sotto un po’ in disparte dal gruppo, che sorride, orgoglioso della sua nuova locomotiva.



Mio nonno Riccardo sulla locomotiva

C’è il nonno un po’ più anziano, con il cappello da capostazione, che legge con noncuranza il giornale seduto alla scrivania, circondato da timbri ed aggeggi burocratici.
Nella pila di vecchie foto, ce ne sono decine e decine di mio padre da piccolo. Ha l’aria impertinente, in posa al mare, con sua madre in costume da bagno, sullo sfondo il famoso stabilimento balneare di Ostia, meta della ricca borghesia romana degli anni trenta. Ora questa pietra miliare della storia balneare ostiense non esiste più. Erano gli anni prima della seconda guerra mondiale, quando papà, aveva circa tre o quattro anni.
Gli anni passano e scoppiò la guerra. 1940, prima comunione e cresima di papà. E’ lì nella foto in posa, classico vestito con pantaloni alla zuava, la fascia di raso bianco, simbolo del ricevimento della cresima, legata al braccio. Per richiamo al tono religioso della foto, una statuetta della Madonna sul classico tavolo da fotografo. Papà ha un’espressione triste, le labbra leggermente serrate per l’emozione, la sua tipica espressione di imbarazzo che ricordo molto bene. Il vestito è troppo largo. Gliel’aveva cucito nonna Margherita, che era sarta. C’era la guerra, era il 1940 e lui aveva 10 anni, le ristrettezze alimentari erano grandi, lui raccontava sempre di questa fame insaziabile che lo divorava. Probabilmente era dimagrito, ecco la causa del vestito troppo largo, che gli scende dalle spalle. Spesso guardando questa foto, ne rideva, dandosi l’appellativo di “Tribolà” cioè pieno di tribolazioni.
Dietro la foto, c’è una dedica scritta di suo pugno all’epoca della comunione, è il ricordo per sua zia Anna, quella sempre elegante. Mi sono commossa nel vedere, quelle lettere tracciate un po’ esitanti, una calligrafia che cambierà nel corso degli anni, di cui però resteranno in modo inconfondibile le effe e le p minuscole. Somiglia molto alla mia. E’ una sensazione che mi causa sempre stupore e dolore, quella di osservare la scrittura di persone che non ci sono più, che fa tornare alla mente, le tante volte che ho visto scrivere papà, la sua possente voce quando scandiva le parole, il “vocione” come lo definivamo.
 

Stando attenta a non mescolarle, trovo nell’altra cartellina, quella della famiglia di mia madre, foto di lei a cinque anni. I capelli cortissimi, insoliti per l’epoca, lei che tenta di sorridere a fatica fingendo di mordicchiare una matita. E’ seduta ad un banchetto preparato da nonno Armando per l’occasione, con tanto di foglio e calamaio. Mamma, ci racconta che fece molti capricci prima di convincersi a mettersi in posa, si vergognava di non avere più i denti davanti.
A dieci anni, invece, nel 1939, due grandi fiocchi bianchi le incorniciano i capelli, tutta impettita e sorridente, nel suo vestitino largo che un po’ le pende da una parte, guarda l’obiettivo. Nella foto si intravedono le suppellettili della casa di allora, la vetrina con i piatti, un piccolo tavolino ricoperto da uno degli innumerevoli centrini, ricamati da nonna Nannina, con i quali abbelliva l’umile dimora.
I centrini di mia nonna, nonostante sia morta dal 1986, ancora girano in famiglia, ed uno abbellisce ora il tavolo della mia cucina, ne sono molto orgogliosa, perché è frutto della sua fatica ed è un suo ricordo.
L’immancabile orto di guerra, quello che salvò dalla fame decine di famiglie durante i durissimi anni di guerra. Nonno Armando, mamma ragazzina ed il “sor Pietro” custode della “caciara” il caseificio Locatelli, che confinava con il piccolo appezzamento dell’orto di guerra, intenti a zappare, vangare e seminare. Nei racconti di mamma, sembra che senza l’aiuto del sor Pietro, non sarebbero riusciti a far crescere neanche un filo d’erba. Insegnò loro a fare i solchi per l’acqua, a piantare a distanza i broccoli, a concimare con la spazzatura. Mamma, prima di andare a scuola, di mattina presto, prendeva le tanniche di benzina vuote dei militari, nonostante vuote, pesavano parecchi chili. Andava lontano, in una polla d’acqua che sgorgava dal terreno per riempirle, portandole con la carriola, per parecchia strada, dato che tutte le tubature, erano ormai saltate con i bombardamenti.
L’ultimo tratto le prendeva una in ciascuna mano, e si arrampicava nel terreno in salita, fino all’orto per innaffiarlo, e far crescere qualche verdura da mangiare. Un giorno, dopo tanta fatica, al momento del raccolto, trovarono tutti i broccoli rubati e tagliati alla cima. Dopo aver innaffiato l’orto, mamma, correva a scuola senza nulla da mangiare, con gli zoccoli di legno, a cui era stata inchiodata una striscia di caucciù, preso da nonno alle rotative dello stabilimento di Staderini, dove lavorava come tipografo dopo aver lavorato vari anni al Poligrafico di Stato.


Mio nonno Armando alle rotative del Poligrafico di Stato



Mia madre, quando racconta queste storie, incolpa sempre le grandi fatiche fisiche, troppo pesanti per una gracile bambina, quale era, la causa dei dolori alla colonna vertebrale piena di artrosi e vertebre schiacciate.
Immortalato da una foto, c’è lo stabilimento Luigi Salomone, grande tipografia del quartiere, situato all’angolo tra via Pellegrino Matteucci e via Ostiense. L’edificio fu completamente distrutto durante i bombardamenti alla stazione ferroviaria Ostiense, si vedono nella foto le macerie sparse in mezzo alla strada e quello che ne resta.




 Mamma ci racconta, che quel giorno funesto, insieme a sua sorella maggiore Pina, era andata ad acquistare della pasta in centro. La moglie di un collega di nonno, vendeva la pasta a borsa nera, verso S. Maria Ausiliatrice, nei pressi di Via Appia. Il bombardamento le colse da sole mentre cercavano di tornare a casa. Le strade erano impraticabili, e dalla mattina che erano partite, verso sera, ancora non erano tornate. Loro era spaventate, vedevano edifici crollati, sentivano i lamenti di chi era rimasto sepolto sotto le macerie, ma non sapevano come fare per avvertire a casa che erano sane e salve perché la linea telefonica era distrutta. A casa le avevano ormai date per morte. Nonno Armando, ormai senza speranze, dopo averle cercate per tutti gli ospedali inutilmente, si avviò verso la strada che avrebbero dovuto percorrere per tornare a casa. Disperato, si sedette, su un rudere nell’Orto Botanico dove le incontrò spaventate, ma salve.
Del tempo di guerra, non restano tanti ricordi fotografici. Vi sono immagini che ritraggono mamma, dopo la fine della guerra, quando ragazza stremata dalla fame, ancora nella magrezza delle privazioni, è in posa con due sue amiche colleghe della Banca d’Italia, tutte e tre con la classica pettinatura della fine degli anni quaranta chiamata a “banana” con quel boccolo arrotolato sopra la fronte ed i capelli un po’ mossi che scendono sulle spalle. La foto delle “tre Sgombro” come c’è scritto dietro, per scherzare sul fatto che tutte e tre, hanno un aspetto poco allegro con il rombo dei bombardamenti ancora nelle orecchie, e la fame ancora incolmabile. Mi racconta  che nonostante si mangiasse di più, lei mangiava sempre con voracità le “ciriolette” che nonna le riempiva di lenticchie, di verdura ripassata in padella, e che dovevano essere il suo pranzo. Era il periodo in cui lavorava da Staderini insieme a  zia Pina e nonno, quando aveva quindici o sedici anni, poco dopo la guerra e stampavano le Am lire, le lire di transizione americane, mangiando la minestra liofilizzata, proveniente da oltreoceano, chiamata PEA, una farina di piselli, da cuocere in acqua calda.





Mentre sfoglio, copio sul Pc e guardo le foto, non posso fare a meno di pensare che un giorno, anche le mie foto, saranno archiviate da qualche parte e mi sopravvivranno, immortalando i miei momenti belli e gioiosi e chissà se in un lontano futuro, qualcuno guardandole, saprà ancora chi è la persona ritratta sorridente.
 

3 commenti:

  1. Buongiorno Signora Monaldi,
    mi chiamo Roberto Andervill e Le scrivo dopo aver visto la foto del Sig. Dante Perrone davanti all'aereo. Sono un appassionato/ricercatore/storico dell'Aviazione della Prima Guerra Mondiale e vorrei aggiungere che l'aereo davanti al quale posa "zio Dante" è un Ansaldo S.V.A.5. Non solo un aereo con insegne italiane ma anche interamente costruito in Italia, uno dei nostri primi tentativi di slegarci dalla dipendenza dalla Francia per quanto riguarda il materiale volante in carico all'allora Aviazione del Regio Esercito. Molto curiosa è anche la sezione colorata verso la coda, potrei fare una ricerca e cercare di capire la Squadriglia e la sede, a meno che questo non sia già scritto sul retro della foto.
    La saluto e Le auguro una buona domenica.
    Roberto Andervill
    Castellanza (VA)
    3496423009

    RispondiElimina
    Risposte
    1. Questo commento è stato eliminato dall'autore.

      Elimina
    2. Mi scusi il ritardo nella risposta. Nel retro della foto non c'è nessuna menzione sulla Squadriglia, so per certo che la sede era Vigna di Valle,località Trevignano, sul Lago di Bracciano, ove oggi risiede il museo dell'Aeronautica che consiglio di visitare perché ricco di velivoli risalenti alla prima e alla seconda guerra mondiale

      Elimina