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martedì 4 febbraio 2014

Vizi italici e microscopiche virtù: Ospedali romani



Giornata spesa in sala d’attesa: uno stretto corridoio di passaggio pomposamente ribattezzato ad uso improprio, così stretto che tocca girarsi, quando passano le barelle provenienti dal pronto soccorso. Abituati agli ospedali asettici, lindi e perfettamente funzionanti delle fiction americane, verrebbe da ridere, se non ci fosse da piangere, nel triste paragone.
Varcando il cancello di un ospedale, si entra in una popolazione variegata e pittoresca, dove i pazienti si distinguono dagli addetti ai lavori solo perché non indossano il camice ma il pigiama.
Appena entri in quel microcosmo, ti assale il disorientamento, dove devi andare? Si inizia col chiedere e non ottenere che risposte vaghe. Giri a vuoto tra corridoi immensi, aggrappandoti alla prima uniforme bianca che vedi da lontano, rincorrendola, mentre quella accelera, cercando di schivarti.
Dopo un tempo interminabile, in cui hai calpestato decine di volte lo stesso pavimento, avanti e indietro, si riesce ad intravedere la giusta strada. Prima però devi farti registrare alla cassa. Arrivi, cerchi il distributore di numeri e ti accorgi che è inesorabilmente fuori servizio. Imprechi, siamo in Italia, e le file si sa non le rispetta nessuno. Ti accodi con circospezione e scruti i volti di chi è arrivato prima, cercando di imprimerli nella memoria, per non farti passare avanti , chi arriverà dopo di te.
I numeratori sopra le casse sono ovviamente spenti, oltre alla fila devi far attenzione alle casse che man mano si liberano, una piccola esitazione ed arriva l’implacabile “A signò nun vede che è vota la numero 4?”. 
Corri, cercando di non farti sorpassare dalla vecchietta che era dietro di te e cerca, arrancando incerta sul bastone, di prendere trionfalmente posto alla cassa 4.
Finalmente, col trofeo del foglio di registrazione in mano, cominci a cercare l’ambulatorio. Dopo parecchio tempo, finalmente riesci ad arrivare nel tanto sospirato corridoio d’attesa.
Leggi le scritte, non è il reparto dove avresti dovuto arrivare, si saranno sbagliati ad indicare o tu sei completamente rimbecillita e non hai compreso? Chiedi di nuovo al più vicino, nella lunga fila che si è formata all’accettazione.
Un signore gentile, che c’è già passato prima di te, mosso a pietà perché conosce la stizza e il disorientamento che ti sta assalendo, ti spiega cosa devi fare. Ti accodi ed aspetti, aspetti… aspetti. Una signora inizia ad alzare la voce, sono tre quarti d’ora che aspetta e nessuno si è presentato allo sportello. Dopo un po’ d’urla, si affaccia l’infermiera che candidamente si siede dietro il computer, senza batter ciglio e inizia a fare finalmente il suo lavoro. Dov’era, si chiedono tutti. Chissà?
Arriva il tuo turno. - Lei ha appuntamento a mezzogiorno lo sa? - Chiede, l’infermiera – Sì - rispondi , cercando di raschiare il fondo del barile, della tua pazienza. - E’ in anticipo di venti minuti e dovrà aspettare un po’, siamo in ritardo - Lo sai che sei in anticipo, hai calcolato male il tempo in più che serviva per i giri a vuoto. Chissà perché, non ti meravigli neanche un po’ per l’annuncio del ritardo.
Nel frattempo, tutti si scansano e si appiattiscono contro il muro, cercando di non intralciare l’ennesimo caso urgente del pronto soccorso, che in fin di vita, viene sospinto in barella sotto gli sguardi pietosi di decine di persone.
Ti appoggi al muro e cominci ad aspettare e nell’ammazzare il tempo, allunghi le orecchie per captare i discorsi di chi, annoiato come te ed in coda da più tempo, si sta raccontando tutte le esperienze ospedaliere e non.
- Lo sa, signora che per una visita intramoenia, (parola latina di antica radice, che vuol significare, riempire velocemente le tasche dei medici ospedalieri, con visite private), ci vuole solo un giorno di prenotazione? Certo sborsi 70 euro, però se stai male davvero ed è urgente, non puoi certo aspettare mesi -
- Infatti! – esclama l’altra - Sono sei mesi che ho prenotato la mammografia. Inizia l’elenco degli ospedali e dei mesi d’attesa, lì due, dall’altra parte cinque, l’altro ospedale, quello alla parte opposta della città, ha addirittura chiuso le prenotazioni. Già! - Se so, magnati tutto e mo’, tocca a noi pagà! - Esclama il solito vecchietto “so tutto io”.
Dopo tanto tempo, servirebbe un bagno. Ti guardi intorno e noti che a fianco dell’entrata c’è l’insegna caratteristica. Osservi la signora che è in coda impazientemente. La porta s’apre ed esce una ragazza dal naso arricciato, si guarda le scarpe e avanza con fare schifato. Rinunci al bagno, pazienza puoi aspettare, già ti immagini le condizioni igieniche che troverai dentro, per giunta è per uomini e donne.
La conversazione attorno continua, sempre sulla sanità italiana, si entra però in particolari, c’è chi racconta le disavventure dell’amica al CTO, chi invece, conosce molto bene il reparto, ha avuto vari ricoveri e sa come muoversi, con tanto di numero telefonico della caposala. - Hai il cellulare del dottore? - Chiede il marito, la moglie gli risponde spazientita, che no non è mica amica intima!
Si ammazza il tempo come si può, si guarda l’orologio ogni secondo, come se così le lancette potessero ruotare più velocemente. 
Finalmente si sente chiamare il proprio nome, ci si guarda intorno, casomai ci fosse stato un malinteso e s’alzasse qualcun altro. Sei proprio tu, ti avvii ed una infermiera biondina, questa sì molto gentile, ti accompagna. Finalmente tra poco esco, pensi tra te e te. Errore, ti fa di nuovo accomodare nel corridoio interno e continui ad aspettare. Sei di fronte all’ambulatorio della gastroentorologia. Da dentro provengono i lamenti di una voce femminile, probabilmente sottoposto a qualche indagine endoscopica. Fuori chi deve entrare dopo di lei, si guarda  con finto fare indifferente ma la sensazione di paura trapela dai volti. Dall’altra parte invece, dove dovresti entrare tu, una vecchina avanza a fatica, aiutata dal bastone, ha le gambe fasciate. L’infermiera le si affianca e le chiede, se stavolta va meglio. Lei con l’aria furbetta, la guarda e risponde che sicuramente non è peggio, ma neanche meglio. L’infermiera comincia a stuzzicarla e le dice che non è una paziente diligente e stavolta chiamerà il medico e ci penserà lui a metterla a posto. Però sorride sorniona e anche la vecchina sorride, tutte e due stanno recitando una parte, ma sanno benissimo come finirà.
Alla fine entri anche tu, la biondina gentile, ti fa stendere sul lettino, ti chiede perché fai l’esame, ti apparecchia attorno al collo del panno carta e ti dice di aspettare. Ancora, pensi tu, ma ormai sei tutta un’armatura di pazienza. Passano i minuti e ti stai quasi addormentando. Che si siano dimenticati di me? Ha detto di aspettare, meglio non farli inviperire che poi se la prendono sempre col paziente, impaziente. I minuti corrono ma nessuno appare all’orizzonte. Tendi un orecchio e ti pare di udire il battito amplificato di un cuore, stanno facendo un ecocardiogramma magari è il paziente privilegiato che ti è passato avanti, perché raccomandato, visto che paga alla studio privato del dottore. Pensi e rimurgini su questa sanità, sempre più malata. Entra il dottore, fa velocemente l’esame e s’incavola con la collega, per un paio di ricoveri che non ne avevano il diritto ma tant’è la legge è quella. Finalmente ti dice che è finita ma non puoi ancora uscire, attendi fuori nel corridoio sala d’attesa interno, per la risposta. Intanto ti ritrovi accanto i vecchietti che discorrevano di prenotazioni, è arrivato anche il loro turno. Aspetti, aspetti… aspetti finalmente arriva la biondina con una bustona gialla - Tutto ok – dice - Può andare. 
Ti metteresti a saltare dalla gioia. Per un esame di dieci minuti, sei stata in paziente attesa, circa 3 ore, sarà per questo che ci chiamano pazienti?


Questo fu scritto qualche anno fa. Ora, tra tagli e inefficienza, è peggio, molto peggio.

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