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mercoledì 19 aprile 2017

L'ultimo caso per il commissario Roversi?



Le sirene delle volanti lacerano il silenzio della notte. Le luci dei lampeggianti illuminano la strada ad intermittenza, riflettendosi sui palazzi, entrano nelle imposte chiuse e svegliano la gente.
L'appartamento è piantonato dagli agenti, la scientifica è all'opera per effettuare i rilievi.
Vi sono oggetti sparsi sul pavimenti, molti in frantumi. Un vetro rotto della finestra fa entrare vento e le tende si gonfiano come vele,  quasi volessere portare lontano tutto quell'orrore. L'investigatore osserva ogni piccolo dettaglio, si avvicina e apre le imposte, esce sul balcone e si china sulle ginocchia, osserva con attenzione i frammenti di vetro sparsi sul pavimento. Prende il posacenere incastrato tra due vasi di geranei, segno che è stato scagliato con molta forza. È carico di mozziconi di sigaretta sparsi a terra, alcuni sporchi di rossetto. Li ripone con cura in un sacchetto sigillandoli, dovranno essere analizzati.
La scena si presenta cruenta. Una donna, col volto tumefatto, giace a terra in posizione innaturale, le hanno tagliato la gola. Il sangue è dappertutto, schizzato sulle pareti, allargato in una pozza sotto di lei.
Il divano è rovesciato, così come il tavolo e le sedie. Bicchieri e soprammobili sono ormai frantumi di un puzzle difficile da ricostruire. La donna presenta ferite d'arma da taglio sugli avambracci, ha cercato di proteggere il volto dai fendenti dell'omicida.
Il Commissario Lino Roversi detta ordini agli agenti della scientifica. Lo hanno svegliato nel cuore della notte, c'era un bagno di sangue e una donna uccisa. Un fatto certamente fuori dal comune in una realtà provinciale piccola e chiusa, come quella di Careggine, ai piedi della Alpi Apuane, in cui lo avevano trasferito un anno fa, conta circa cinquecento anime. Aveva cercato a lungo di allontanarsi dalla violenza di una metropoli come Milano, dove lavorava. Non ne poteva più di cadaveri, dell'odore del sangue e di delitti efferati. Il commissariato di S. Babila, aveva visto vent'anni della sua vita scorrere in mezzo alla violenza. Rapine, stupri, omicidi e ora anche le organizzazioni criminali che dal sud si erano espanse lì, dove i soldi giravano e il potere si allargava.
Lino Roversi, uomo sulla cinquantina, magro, dal volto indurito e lo sguardo penetrante, voleva una vita tranquilla prima di andare in pensione e si era fatto trasferire lì, in quel piccolo paese ai piedi delle montagne, dove d'inverno la neve ricopriva tutto in un silenzio irreale. 
La gente si conosceva più o meno tutta, difficile pensare che l'assassino fosse uno di loro, gente tranquilla, nata e vissuta lì. Scambi di chiacchiere tra mazzi di carte, caffè e bicchieri di vino nel bar di piazza Regina.
Una comunità che forse nascondeva una serpe, pensò il commissario Roversi, mentre osservava il corpo della vittima. 
Elena Seleni, così si chiamava, conosciuta da tutti come la dolce Elena, perché dolce di carattere, ma soprattutto perché si occupava della pasticceria del paese, un tempo di suo padre. Il commissario non riconobbe in quel volto sfigurato quello che tante volte, la domenica, gli aveva impacchettato i bignè e i diplomatici,  col solito sorriso sulle labbra. 
Roversi osservò di nuovo la scena del crimine, in quel monolocale dove lei abitava da sola, da quando il marito se n'era andato via. Era scappato dietro a quella forestiera, giunta dal capoluogo in vacanza, in un'estate rovente, era questo che il commissario aveva sentito dalle voci del paese.
Chi dunque poteva aver fatto scempio di quella povera donna?
Il commissario sussultò al trillo del suo cellulare, concentrato com'era in ipotesi e pensieri pesanti, lo stava chiamando il procuratore per avere un aggiornamento dettagliato sul caso.
Diede disposizione alla polizia mortuaria per rimuovere il cadavere e fece mettere i sigilli all'appartamento. Poi, stringendosi l'impermeabile troppo ampio e spiegazzato al corpo ossuto, quasi a farsi scudo dall'ennesima violenza, scese a perdifiato le scale, per lasciarsi quella scena alle spalle. Avrebbe dovuto essere avvezzo all'orrore e alla violenza, non era mai riuscito a farsi una corazza e ora, in quell'ambiente amichevole, era ancora più difficile. Aveva sbagliato mestiere, lo sapeva, con la sua laurea in legge poteva difenderle le vittime o forse avrebbe finito per difendere gli assassini. Allontanò da se quel pensiero, non era tempo per i rimpianti. 
Accese l'ennesima sigaretta, ne aspirò il fumo con bramosia e si mise a scrivere il lungo rapporto da inviare al procuratore. 
Bisognava innanzitutto scavare nella vita della vittima. Lino Roversi odiava indagare, scendere nel privato delle persone, pur se morte. Nel caso di Elena Seleni lo ripugnava ancora di più, perché la vittima non era solo un cadavere ma una persona che lui aveva conosciuto, anche se superficialmente.
Occorreva interrogare quel vicino, tale Nuccio Luperti che verso mezzanotte aveva chiamato la polizia, il primo legame con il caso.
Il testimone fu mandato a chiamare, disse che conosceva bene Elena da quando erano bambini, avevano frequentato le scuole dell'obbligo insieme, ma col tempo le loro vite si erano allontanate, specialmente dopo che lei aveva sposato quel poco di buono di Berto Còlleri. Un cognome che era tutto un programma, così disse a Roversi. Sulle motivazioni di questa sua osservazione, asserì che era un uomo collerico, fedifrago e che si faceva mantenere dalla moglie, in quanto nulla tenente.
Roversi gli chiese se ricordasse da quanto tempo Elena si fosse trasferita in quel monolocale. 
- Più o meno tre anni, da quando, signor Commissario, il marito è scappato con l'ex moglie del vecchio dottore del paese, ora in pensione.
 A Roversi risultava che la donna fosse una forestiera di passaggio, il particolare gli era sfuggito, in quanto all'epoca del divorzio del dottore, lui non era ancora stato trasferito. Poteva essere un indizio importante o un nulla di fatto, bisognava indagare sulla donna.
Poi si fece di nuovo descrivere il motivo che aveva portato il testimone a chiamare le forze dell'ordine.
- Elena aveva avuto un ospite?
- Non lo so, commissario, non sto lì a spiare i vicini. 
Su questo Roversi aveva qualche dubbio, ma impassibile continuò con le domande.
- Lei asserisce, signor Luperti, che verso le ventitré ha udito delle grida provenire dall'appartamento della vittima. Che tipo di grida? 
- Una voce di donna, quella di Elena, ne sono sicuro, gridava ma non si capivano le parole.
- E poi?
- Poi una voce maschile, dai toni baritonali, anche qui però non si riusciva a capire cosa dicesse.
- Ha cercato d'origliare?
-  Ma che dice Commissario, no, mi hanno svegliato e ho cercato di capire che succedeva in quella casa, di solito sempre silenziosa.
- Glielo chiedo perché se avesse potuto captare una parola, una frase, mi sarebbe d'aiuto.
- Ora che me lo fa notare, una frase sì, l'ho udita: “Non ti far vedere mai più, sparisci una volta per tutte”. 
- Era la Seleni o l'uomo a pronunciarla?
- Elena.
- Poi cosa è successo?
- Un parapiglia di rumori, di cose sbattute con forza che si rompevano, si capolvogevano, tremava anche il pavimento. E tante urla di lui e di Elena.
- Cosa gridavano?
- Non lo so, commissario, non si capiva nulla con tutti quei rumori.
- Poi?
- Poi l'urlo di lei, qualche altro rumore di cose smosse e dopo il silenzio.
- Lei ha provato a bussare, a vedere se avesse bisogno d'aiuto?
- Ma che dovevo fare, signor Commissario? Ho pensato ad una lite di famiglia, non volevo intromettermi.
- Crede, dunque, che potesse essere l'ex marito, l'uomo in questione?
- È quello che ho pensato, chi altri signor Commissario? Elena era una donna morigerata, riservata, non ho mai visto un uomo in casa sua, dopo il divorzio.
- Per il momento è tutto, signor Luperti, per ora può andare.
Si continuò a scavare nella vita di Elena Seleni, e strato per strato, sotto una coltre di omertà e silenzi, vennero fuori particolari della vita di quella donna che ne delineavano un profilo diverso da quello conosciuto in paese.
Si scoprì il vero motivo del suo divorzio. Quello che aveva detto il vicino di casa, era in parte vero, ma mancano dei particolari essenziali per l'indagine.
Era stato quando il Commissario aveva interrogato l'ex moglie del dottore che molte cose si chiarirono. L'ex marito della Seleni, dapprima si era negato, non facendosi trovare, poi esibendo un alibi inattaccabile aveva risposto a monosillabi alle domande incalzanti di Roversi, poco o nulla aveva potuto cavar fuori da quell'uomo.
L'amante di lui, invece, con lingua sciolta e rancore mal sopito verso la vittima, ne fece un ritratto diverso dalla dolce donna abbandonata che il paese aveva dipinto. Molto sapevano ma avevano taciuto.
Roversi cominciò a trovarsi davanti il ritratto di una donna, prepotente, che teneva il marito sotto ricatto per via di alcune vicende del suo passato, su cui poi lui indagò. Gli negava i soldi, gli faceva pesare la sua condizione di disoccupato, non era colpa sua se con la fedina penale segnata per via di quel vecchio fatto, nessuno lo assumeva. Sua moglie, così disse la donna nell'interrogatorio, gli negava il sesso, avendolo cacciato persino dal suo letto, dormivano in stanze separate. Il poveretto, secondo la donna, alla fine di discussioni e liti, non ce l'aveva più fatta, e lei l'aveva consolato.  Molto più giovane del consorte, la donna che prima ne era stata l'infermiera, aveva sposato il medico condotto per ottenere la cittadinanza e una situazione economica migliore. Veniva da un paese dell'Est Europa, ma non l'aveva mai amato e quando aveva conosciuto il marito della Seleni, se n'era innamorata.
Ecco il perché dell'appellativo “forestiera”, si disse il commissario, non era nativa del posto ma non era capitata lì da un momento all'altro, ci viveva da qualche anno e sapeva parecchie cose.
- Dunque, lei dice che la morte del cugino del suo convivente fu un incidente.
- Certamente commissario, fu la sentenza a stabilirlo.
- Però sembra che lui abbia la cattiva fama di essere un violento, uno che non si fa scrupoli di usare le mani per farsi giustizia.
- Ma che dice signor Commissario, è lui la vittima. Il cugino, per via di alcune questioni di famiglia gli aveva sottratto una grossa fetta dell'eredità del nonno. Sono venuti alle mani, che doveva fare il poveretto se non difendersi? Poi se quello ha battuto la testa e c'è restato secco, non è stata mica colpa sua.
Il commissario impassibile la guardava scrutandola da capo a piedi senza darlo a vedere. Quel suo accento straniero, il trucco pesante, il colore degli abiti fuori moda, tutto di quella donna gli era ostile, ma doveva restare neutrale.
S'indagò allora sul passato del suo convivente, l'ex della Seleni. Veniva da un paese della Calabria, era stato legato marginalmente ad un giro di droga quando era giovane, poi era diventato uno dei galoppini del  boss della 'ndragheta locale, riscuoteva il pizzo per conto del padrone, sfoggiando tutta la sua arte alla violenza. Non si era mai fatto arrestare, però, e restò incensurato fino al processo per la morte del cugino, da cui non fu scagionato, come aveva raccontato la donna, ma rilasciato per mancanza di prove. 
Alla luce dei fatti sembrava il colpevole perfetto ma c'era l'alibi di ferro, che era inattaccabile.  In omertà, insabbiature e omissioni, l'uomo era molto abile ma sembrava non ci fosse nulla da fare contro di lui.
Roversi ragionava, ripassò davanti agli occhi più volte la scena del crimine, ma c'era qualcosa che non lo convinceva e che non riusciva a mettere a fuoco. 
La vittima era una donna dalla reputazione impeccabile, dal carattere dolce, morigerata come aveva detto il vicino o era invece la donna descritta dalla sua rivale? Come aveva fatto a sposare un uomo con quel vissuto? Lo conosceva o lui le aveva sempre mentito e quando l'aveva scoperto ne aveva avuto orrore? 
Le indagini portarono a scoprire il passato della donna. Lei aveva perso la testa per quell'uomo,  e contro la volontà della famiglia, diffidente nei confronti di lui che era sbucato dal nulla con quell'accento del sud, lo aveva voluto sposare per forza. Era stato un lavorante del padre, alla pasticceria, assunto per necessità e per fare un'opera buona. Lui aveva raccontato delle difficoltà di trovare lavoro al suo paese, l'altro lo aveva assunto subito per mancanza immediata di personale, non aveva però considerato gli sviluppi futuri.
Dopo qualche anno di matrimonio, l'idillio a quanto pare era sparito e lei aveva cominciato ad odiarlo. La picchiava, risultò da un vecchio referto scovato in ospedale dove, lei, aveva dichiarato di essere caduta ed essersi procurata un paio di fratture.
Scavando a fondo, vennero a galla tanti particolari della vita di Elena Seleni che poco c'entravano con il suo omicidio, ma che alla fine dipinsero un ritratto completamente diverso di quella donna, non era la megera descritta dalla rivale dell'Est, ma neanche la santa descritta dal vicino.
Si sentiva a disagio, il commissario Lino Roversi in quel ruolo di “scavatore”.  Gli sembrava di essere un intruso nella vita degli altri, ma era il suo mestiere, scavare come un archeologo, strati e strati di fango per arrivare a scoprire la verità.
Fu passata al setaccio la contabilità del negozio, apparentemente in regola, ma scavando si trovarono irregolarità, falsificazione di fatture, insomma  un vespaio finanziario. 
La ditta di Elena Seleni era sull'orlo della bancarotta, aveva debiti a cui far fronte. Molti fornitori non volevano più aver nulla a che fare con lei, eppure il negozio aveva parecchi incassi, la clientela non le mancava, conduceva una vita abbastanza parca. Dove finivano tutti quei soldi?
Roversi continuava ad avere quel ronzìo nelle orecchie, quel qualcosa che non riusciva a focalizzare, una nota stonata, si sarebbe potuto chiamare un sesto senso in allarme.
Indagò nella melma dell'usura senza cavarne un ragno dal buco, i suoi informatori riferirono che nessuno conosceva la donna nell'ambiente. Se il marito non c'entrava, la malavita neanche, chi aveva ucciso Elena Seleni?
Gran bella gatta da pelare, pensò il commissario, che era andato a passeggiare nel bosco dietro casa, per schiarirsi le idee. Lì tra l'umidità del mattino, e il profumo dei pini mise finalmente a posto i tasselli di questa sordida storia e il particolare affiorò dalla sua memoria visiva.
Un gemello d'oro, uno soltanto, ritrovato a terra a fianco della vittima e repertato come elemento n. 34. Aveva un piccolo brillante incastonato al centro. Roversi fece di nuovo setacciare la scena del crimine alla ricerca del compagno, ma non lo trovarono. 
Un piccolo particolare che era sfuggito a tutti, attribuito probabilmente all'ex marito della vittima, ma mai verificato.
S'interrogarono di nuovo coloro che risultavano nei verbali. Alla fine la donna delle pulizie di Nuccio Luperti, il vicino della Seleni, riconobbe il gioiello che appartaneva proprio al Luperti, la donna ne mostrò il mancante al commissario.
Il Luperti aveva asserito di non aver più avuto contatti con la donna, allora cosa ci faceva sulla scena del crimine il suo gemello d'oro?
Le indagini si concentrarono su di lui.
Il commissario lo interrogò a lungo.  Lui asserì di non sapere di aver perso il gioiello, che non lo metteva da tempo, non sapeva proprio come aveva fatto a finire in casa di Elena.
- Si rende conto, signor Luperti, di quanto la sua posizione sia grave? - Urlò alla fine il commissario, sbattendo sul tavolo una pila di documenti, lì da tempo,  tanto per sottolineare la sua ira. Era stufo di sentir menare il can per l'aia da ore.
L'interrogato tacque e abbassò gli occhi, perché quegli occhi penetranti sembravano frugargli nel cervello alla ricerca di quello che lui non confessava. 
A Roversi sembrò un cedimento e ricominciò con le domande, sempre più incalzanti.
- Ricominciamo da capo. Come ha conosciuto la vittima?
E Luperti ricominciò con le risposte ma ogni volta, il commissario aggiungeva un particolare, sottolineava una contraddizione del sospettato, lo metteva in difficoltà. Fu dura ma alla fine crollò. Era bravo Roversi negli interrogatori.
L'uomo confessò che aveva avuto una relazione con la Lunardi, qualche tempo dopo l'abbandono da parte del marito. Durante i loro incontri intimi, aveva girato alcune scene, ad insaputa di lei, per suo diletto. Poi lei aveva troncato la relazione, senza una spiegazione logica, senza che ci fossero altri uomini. Semplicemente si era stancata. Lui, però, non se ne faceva una ragione e aveva cominciato a perseguitarla. Alla fine la ricattò con quelle vecchie registrazioni e minacciava di renderle pubbliche sui social network per rovinarla. In cambio del suo silenzio le continuava a chiedere soldi, cifre sempre più alte. Lei, stufa e sull'orlo della bancarotta, aveva minacciato di denunciarlo, ne era nata una violenta lite. Lui prima aveva buttato sottosopra la casa alla ricerca di moneta e gioielli e non trovandone, aveva cominciato a picchiarla selvaggiamente per farsi dire dove li custodiva, ma lei non ne aveva più, glieli aveva dati tutti, ormai. Lui non credendole, fuori di se, aveva preso un coltello affilato dal cassetto della cucina e le aveva tagliato la gola. 
Era scappato via chiudendo la porta alla sue spalle. Poi, dopo essersi calmato, aveva fatto la chiamata alla polizia, recitando la parte del vicino preoccupato.
Roversi non disse una parola durante quella confessione fiume. Osservava l'omicida e gli parve che man mano che le parole gli uscivano di bocca, si fosse liberato da un fardello pesante.
Nel frattempo ogni parola era stata trascritta sul computer da un agente.
- Fanne cinque copie e fagliele firmare – Ordinò Roversi, poi aggiunse:
- Portatelo via! – Non disse toglietemelo dalla vista, ma fu quello che pensò.
Per giorni il paese fu invaso da speaker delle varie tv, da giornalisti invadenti che rincorrevano la gente per conoscerne il parere, per cogliere la lacrima di coccodrillo su qualche volto addolorato per la morte della Seleni. Il commissario Lino Roversi, dopo aver fatto il comunicato stampa, li rifuggì come la peste, non ne poteva più di vederli in giro accampati per il paese. Gli erano stati tra i piedi per tutta l'indagine. La gente tornò a parlare di calcio, di politica da bar, davanti ad un bicchiere di vino o un caffè, la pasticceria riaprì con un nuovo proprietario e col tempo Elena Seleni, divenne soltanto un ricordo.










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