Sinonimo di bestie fantastiche, medievali. La bestia, incarna la parte negativa di noi, usata per insultare, per indicare parte umana priva di sentimenti positivi. Animali che incutono timore, a volte pietà.
Il termine che intendo, indica il mio concetto di contatto diretto con la natura, in un’estate assolata e rovente.
Suoni e versi che s’intrecciano nell’aria profumata di pini e ed erba bagnata di rugiada mattutina. Ben diversi da quelli a cui il mio orecchio cittadino non fa neanche più caso.
Giorno e notte, scanditi dall’avvicendarsi delle ore e delle “bestie”. Quando la cintura di Orione è ben alta in cielo, una lieve pennellata rosa, s’allunga all’orizzonte, il blu cobalto, cede il posto, lentamente al rosa dell’alba. Mi piace pensare che gli alberi, inizino a stiracchiarsi, allungando i rami verso quel sole da cui prenderanno forza vitale. Una nota stonata, stridula, interrompe la lunga serenata notturna dei grilli. Il gallo ha dato la sveglia. Una, due, tre volte, perché anche il più pigro si alzi nel rito del passaggio di quel carro d’Apollo, di qualche millennio fa, che poco più a sud, assumeva le sembianze di Ra, all’ombra delle piramidi. L’avvicendarsi del giorno e della notte, ci colpisce come una nuova magia che si ripete all’infinito dai tempi dei tempi.
La sveglia è stata data e le signore galline, starnazzando vanno a razzolare, raccontandosi tra un beccar e l’altro i pettegolezzi di pollaio, così come fanno tante comari di paese, l’ultima gallina andata in brodo, pace all’anima sua o l’ultima covata pigolante che pare aggrapparsi alle piume di chioccia.
Le oche starnazzano come non mai stamattina, sarà scoppiata una lite furibonda per il titolo di Miss oca giuliva? Non avrei mai immaginato, quanto moleste potessero essere all’orecchio che anela silenzio, troppo martoriato dai rumori rombanti della città. Un Qua, qua, qua, stridulo in gara con l’abbaiar del cane, un contenzioso di vicini su chi fa meglio la guardia. Attente, troppa solerzia uccide! Attente, oche urlanti, qualcuno potrebbe amare il patè de fois gras.
Il gatto sonnecchia, stremato dal caldo, si è acciambellato all’ombra del fico, non è ancora giunta l’ora dell’artiglio per accaparrarsi la più bella del circondario. All’imbrunire, però la battaglia sarà sanguinosa, tra soffi e zampate e lei se ne andrà via sdegnosa, con un’alzata di coda e l’andatura regale lasciando i due contendenti scornati e sconcertati.
Il sole è alto e brucia, piega i fili d’erba assetati, colora i frutti che cadono maturi a terra, con piccoli tonfi, spaccandosi al suolo e spargendo sentori zuccherini e appiccicosi.
Le vespe accorrono ronzando, a nugoli si dividono il bottino con le formiche laboriose. Grasse formiche e formichine, talmente minuscole che a mala pena si distinguono singolarmente. Un lungo serpente nero si dipana, mille e mille zampine arrancano, stringendo tra le tenaci tenaglie pesi enormi. Non si fanno fuorviare, tornano sempre sui loro passi, e come sherpa, si caricano sulle spalle il desinare per l’inverno.
La cicala invece, come nelle fiabe se la ride beata. Canta, assorda e riempie l’aria con le sue note stridule. Si cheta brevemente ad un rumore forte e improvviso, poi riprende, un vibrare incessante, che sembra smuovere l’aria ferma che brucia. Canta, la sua serenata fino alla fine.
Allegra e ciarliera
comare d’estate.
Nella calura,
sotto al sole rovente,
portatore di frutti e di arsura,
il frastuono
è preghiera gioiosa,
un grazie
di vita radiosa.
L’incessante sparlare,
e il dolce far niente
ti cela però,
la tua fine imminente.
Un fischio prolungato, un lungo segnale. Un generale piumato dà ordine al suo stormo che prende possesso del Grande Pino. Il cinguettio è assordante. Centinaia di uccellini si posano stremati, cercano il riposo prima di riprendere il volo. Una sosta e la migrazione continua. Un battito secco di mani e la nuvola piumata prende il volo, il viaggio riprende, bisogna affrettarsi prima dell’arrivo del freddo.
Mentre il sole tramonta e arrossa il cielo a ponente, una lieve brezza s’alza a chetare la calura del giorno. L’ape raccoglie le ultime gocce di nettare prima di tornare nell’arnia, un calabrone romba diretto al nido, un aereo minaccioso e pungente, Barone Rosso d’estate caliente.
E’ il momento del cambio di turno. La rondine cede il passo al pipistrello mentre lentamente il cielo si fa sempre più blu. Piccoli punti luminosi, costellazioni antiche di altre “ bestie” leggendarie, sospese in alto, suscitano versi ai poeti e indicano la via ai naviganti.
Nugoli di zanzare, s’avventano su gambe, piedi e braccia. Hanno sempre la meglio, possono perdere una battaglia ma la guerra, mai. Uno schiaffo per immortalarne qualcuna per la storia, martire di guerra, uno sbuffo di fumo al profumo di citronella, lei ti sbeffeggia beata, ronzandoti nell’orecchio e ti sfida.
Il buio cambia prospettiva. Tutto ciò che alla luce forte del sole appare conosciuto e rassicurante, allungando l’ombra, sembra che assuma artigli e zanne pronte a ghermirti. Un fruscio nel buio, e si sobbalza, tremebondi come un homo sapiens nella savana notturna. Nacquero così gli spiriti maligni, creature mostruose che bramavano l’uomo. Riti e religioni, angeli e demoni. Meglio accendere la torcia elettrica, non sia mai che un vampiro, esca dai miei racconti per venire a succhiarmi il sangue e contenderselo con la zanzara tigre.
Al fresco della sera, il topo paffutello, scorrazza al sottotetto intento ad una partita di sopravvivenza. Topo molesto, topo da sterminare? No, non ora. Da buoni vicini, tu al piano di sopra, io sotto, senza interferire.
Un timido e goffo riccio arranca strisciando nelle foglie secche, fa il morto, quando la torcia lo acceca, gli è sempre andata bene così che non ci pensa neppure a cambiare strategia. Fingo di non vederlo e lo lascio al buio.
Un piccolo geco, s’arrampica sulla parete attirato dalla lampadina. S’insinua tra gli spiragli della zanzariera, a caccia d’insetti. Ignora che sta per diventare da cacciatore a preda. Non sia mai che mi scorrazzi per casa. Il piccolo “Gek”, lo catturo con scopa e paletta, piano, delicatamente per non fargli del male e lo ributto nell’erba. Sconcertato mi guarda con i suoi occhietti velati da palpebre trasparenti. Uno sbatter d’occhi di terrore e in un fruscio è sparito. Tra le vecchie assi della pergola d’uva, un rosicchiare sordo e impercettibile. Il “Tarlo del dubbio”, è il nome che gli ho messo, anche lui fa parte del “bestiario” di casa. Rosicchia rubacchiando pezzetti di legno, metafora di quel del dubbio, che s’insinua rosicchiando abbozzi d’idee e le riduce in polvere.
Il grillo ha ricominciato il suo concerto. Falene smarrite, in cerca di luna, finiscono arrosto sulla lampadina, restandoci attaccate come salsicciotti su una griglia. Un barbecue disgustoso e repellente.
Poi arriva lei.
La regina della notte. Un forte richiamo inconfondibile. E’ lei, la civetta che nella mia infanzia, turbava i miei sonni innocenti, temuta come “bestia mostruosa” nella mente di bambina. Ne salvammo una, anni fa, entrata dalla canna fumaria del camino e restata intrappolata. “Povera Bestia”. Stremata e impaurita, volava cercando una via d’uscita sbattendo contro i vetri, chiusi delle finestre. Poi finalmente riuscì ad imboccare la porta aperta, volando bassa, stanca, su un ramo di pino.
Un animale magico, che spesso appare a fianco di maghi nell’immaginario umano, incantatrice.
Come in una metamorfosi d’Ovidio, vorrei tanto trasformarmi in una rigogliosa Mimosa, sui cui rami si posano passeri stremati, e spargendo profumi nell’aria restare immobile in una eterna primavera.
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