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mercoledì 27 giugno 2018

Erminia

Dipinto di Pierre Auguste Renoir



Quando era nata, poco prima della marcia su Roma e dell'avvento del fascismo, le avevano imposto il nome della principessa innamorata di Tancredi, nella Gerusalemme liberata: Erminia.
Probabilmente suo padre si era ispirato a qualche persona che conosceva, Torquato Tasso, non sapeva neanche chi fosse stato.
Suo padre, uomo semplice, viveva coi prodotti della terra, spaccandosi la schiena tutto il giorno sotto il sole d'estate e il freddo d'inverno. Aveva sposato Lavinia qualche anno prima e tutti e due erano figli di una fine secolo ormai alle spalle e di cambiamenti epocali. A quei tempi, fare il contadino significava sudore e lacrime, quando la natura si ribellava e i frutti erano scarsi.
Erminia, la secondogenita, era nata in un'assolata giornata di fine luglio, senza neanche una brezza ad alleviare l'afa. Fuori la casa, in mezzo al paese, le cicale assordavano l'aria arroventata, nascoste sugli alberi della piccola piazza. Quando sua madre la partorì, col suo primo grido nel venire al mondo cercò di sovrastarle per zittirle tutte. 
Aveva una chioma di riccioli rossi, un colore particolare, sembra l'avesse ereditato da una zia materna, nessuno in famiglia aveva la sua carnagione candida, la sua pelle di velluto. Gli occhi vivaci del colore del miele, trasferivano tutto il carattere volitivo che la caratterizzava. 
“Erminia!” gridava la madre, per richiamarla a casa, persa in qualche vicolo a fianco, a giocare con le monelle della sua età. 
Quel richiamo ancora lo sentiva nella testa, ma la voce era sbiadita, volata su in cielo, come la sua mamma. Non riusciva più a ricordarne il volto e correva nella stanza che Lavinia aveva condiviso con suo padre, dove c'era il suo ritratto appeso, per non dimenticarla ancora una volta.
L'aveva lasciata che aveva appena imparato a scrivere il suo nome, con una calligrafia ancora incerta, ma aveva dovuto abbandonare la scuola e la cara maestra. Tutto cambiò dal triste evento, subito dopo la nascita della sorella minore. Un fagottino urlante che suo padre non sapeva come gestire. Il pover'uomo si ritrovò solo con tre pargoli da accudire. Gli sembrò un'impresa così titanica, persino più dura della guerra che aveva combattuto. Allora aveva cercato di scamparla con una ferita che si era procurato al piede con la soda caustica. Ora come avrebbe potuto far crescere i tre figli senza una madre?
Erminia dovette imparare presto a svolgere le mansioni di una donna, crescere in fretta e dimenticare l'infanzia. Imparò a prendere l'acqua alla fontana del paese, a lavare i piatti con l'acqua della cottura della pasta, che sgrassava l'unto. Poco importava che non arrivasse all'acquaio, con un banchetto tutto era risolto. Le piccole manine strofinavano i panni sporchi, al lavatoio comune, con l'acqua che illividiva le mani, le comari a volte l'aiutavano, a volte le voltavano le spalle, intente nelle loro fitte conversazioni da cui scappavano parole di commiserazione.
Una zia supervisionava e le insegnava il da farsi, quello che la sua mamma non aveva avuto il tempo di fare. Le insegnò ad impastare le pagnotte per la settimana, un impasto duro per due manine tenere, l'aiutò a portarle al forno, ma col tempo, man mano che lei cresceva, l'insofferenza della donna si faceva sempre più palese. Due famiglie erano troppe e spesso, la zia, sfogava su Erminia il suo malumore. Crescevano i musi lunghi, i silenzi, il non detto tra adulti, che l'adolescente interpretava come l'ennesimo abbandono. 
Imparò a fare da madre alla sorella minore e al fratello, cercava di fare del suo meglio e il padre si affidò a lei del tutto. Governava il maiale, innaffiava l'orto, correva dalla mattina alla sera senza nessun tempo per sé stessa. Poco tempo dopo la grande perdita, suo cugino Giovanni, ormai adulto, le intrecciava i capelli ribelli, per  mandarla a scuola, ancora non ne era capace e lei non se ne dimenticò mai, neanche in vecchiaia, quando andava a visitarne la tomba con riconoscenza e affetto.
Le era rimasta una calligrafia infantile, con le emme arrotondate, le t con il trattino in mostra e le i che allungavano il collo sul puntino.
Divenne una bellissima ragazza, inconsapevole e poco incline al sorriso. Un volto dal quale traspariva una tristezza ormai cronicizzata. I giovanotti del paese la fissavano quando andava a riempire il recipiente dell'acqua, e lei  a testa bassa e senza dare confidenza a nessuno, da sola, faceva la fila, senza amiche che l'accompagnassero. C'era un enorme divario tra lei e le coetanee ancora sotto la sorveglianza materna, benché fossero tempi difficili per tutti, ancora non avevano la consapevolezza delle responsabilità che su di essa gravavano e la sentivano strana, diversa.
Di fronte a casa sua, nella piccola piazza, abitava una numerosa famiglia, sei figli tra maschi e femmine, lì era nato lui, secondogenito ma primo maschio, figlio anche lui di contadini. Suo padre coltivava la vite e a volte esagerava col bicchiere, toccava a lui riaccompagnarlo a casa, sulle gambe malferme. 
Ragazzo sveglio, dallo sguardo penetrante e ironico, due baffetti sottolineavano un sorriso sbarazzino.  Le fece una corte spietata, benché quasi tutte le ragazze da marito, spasimassero per lui, compresa la sorella minore di lei, lui aveva occhi soltanto per quella ragazza dai riccioli color del rame.
Non lo degnava di uno sguardo, non gli rivolgeva la  parola, Erminia, ma lo aveva notato e col tempo si ammorbidì. Si fidanzarono  col beneplacido delle famiglie. Si potevano incontrare solo in casa di lei, col padre o il fratello presente, seduti ai lati opposti del tavolo. La loro prima passeggiata  mano nella mano, fu alcuni anni dopo, in presenza della sorella e immortalata in una rara foto, su un campo arato da poco.
Scoppiò la guerra, lui partì per la Russia e per lungo tempo non se ne seppe più nulla. Fu uno dei pochi a tornare.  S'arruolò carabiniere, per non dover fare il contadino anche lui tutta la vita, ma lo trasferirono a Venezia, mezzo Stivale lontano da casa per dodici lunghissimi anni, nei quali la storia la fece da padrona sulle loro piccole vite. La guerra quasi si portò via suo fratello, neanche ventenne, ferito dallo scoppio di una  mina che teneva tra le mani, prima di lanciarla, in Libia. Tornò senza la vista e alcune dita della mano mozzate, ma vivo. Lo spirito in lui non si rimarginò come le ferite esterne. Un giovane nel fiore degli anni dalla vita distrutta. Erminia si prese cura di lui, come aveva sempre fatto e quando ormai, aveva una famiglia sua, lo accudì insieme ai figli per tutta la vita, con la severità che la caratterizzava, specialmente quando lui si abbandonava  ad un bicchiere di troppo, forse per dimenticare quelle immagini che erano state le ultime impresse nei suoi occhi, prima del buio perenne. I figli di lei, furono i figli che lui non ebbe mai.
La vita le scorreva davanti, e spesso si voltava indietro, pensando a quella madre che le era sempre mancata e che aveva lasciato un vuoto incolmabile, mettendole sulle spalle responsabilità pesanti. Vita normale, gioie, dolori. Una figlia persa in un parto che si era annunciato troppo presto, un dolore mai dimenticato. Compleanni da festeggiare, uno dopo l'altro,  battesimi, comunioni, feste di laurea e gli anni si rincorrevano.
Poi perse lui, l'ancora di salvezza, la metà di lei, il suo tutto. Quel dolore che tornava quando qualcuno di casa se ne andava per sempre, portandosi via un pezzetto di lei ogni volta, lasciandola un po' più sola, lasciandole la tristezza che tornava e non voleva andarsene. Stavolta un abisso in cui si perse.
La matassa della memoria s'ingarbugliò, pian, piano, mescolando passato e presente in uno smarrimento che la lasciava tremante di paura, a volte irosa nell'incapacità di rimettere a posto il puzzle della sua vita. Così le paure, i timori che aveva tenuto a bada nel passato, quel terrore di essere abbandonata che sempre l'aveva gremita, si materializzavano come eventi reali e vissuti. 
Si perse pezzi di amore, di vita, di affetti, poco per volta, finché perse anche sé stessa.
Resta nei ricordi di chi l'ha amata, nei racconti in cui si calava nel passato per rivivere ogni volta gli istanti, tramandati in lunghi racconti, dove il tempo s'accavallava e la memoria s'addentrava, rivivendo con nostaglia una gioventù rubata, perduta. 
Resta  nei figli,  amatissimi, talmente amati che non avrebbe mai voluto che crescessero e la lasciassero. 

In memoria e ricordo di Erminia.
Si dice che nessuno muoia davvero finché se ne divulga il ricordo. 

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