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martedì 10 aprile 2018

Buona sera signorina

Audrey Hepburn e Gregory Peck in vacanze romane



Buona sera signorina! 
Lei fece un balzo, non si aspettava di trovarsi faccia a faccia con uno sconosciuto. Era uscita controvoglia, dopo una lunga giornata pesante di lavoro, era l'imbrunire e i negozi tra poco avrebbero chiuso. Sua madre, oberata da mille occupazioni l'aveva pregata di andare a comperare un pacco di spaghetti, servivano per la cena. Quella sera le pesava uscire di nuovo, era arrivata stanca, dopo lunghissime ore passate a controllare i numeri di serie delle banconote nel reparto verifica della Banca d'Italia. Aveva voglia soltanto di sfilarsi le scarpe dai tacchi a spillo e rilassarsi, ma dovette uscire di nuovo. Quando rientrava, c'erano sempre una serie di lavori da fare in casa, sette persone da accudire erano un lavoro pesante per sua madre.
Abitavano in un nuovo lotto in un quartiere popolare di Roma, dove l'urbanistica dei primi decenni del secolo, aveva disegnato un insieme di case attorno ad un cortile, ornato di piante e fiori, di panni stesi ad asciugare che sventolavano alle finestre al vento di tramontana o di scirocco. 
Scese in strada e decise di tagliare per un paio di lotti, attraversandone i cortili avrebbe fatto prima. 
Fu nell'uscire dal retro di uno di questi, che le si parò davanti un giovanotto dal volto imbarazzato, dagli occhi azzurri, quasi bambini, che nascondeva la timidezza in una voce profonda e burbera. 
Buona sera signorina! In quel momento lei, si rimproverò di non essere passata per la strada, di aver ceduto alla pigrizia, ora che fare, gridare? Se fosse stato un maniaco che voleva aggredirla? Era un semplice saluto, poteva rispondere o ignorarlo e tirare via per la sua strada. 
Scusi, l'ho spaventata? Lei stringeva le dita attorno al pacco di spaghetti, fin quasi a spezzarli. 
Cosa vuole, non la conoscono, mi lasci stare! Esclamò impaurita e tenendo gli occhi bassi. È tanto che l'osservo, la vedo passare spesso qui, di solito sto al bar di fronte all'entrata del lotto, con gli amici. Sudava mentre le rivolgeva queste parole, chissà per quanti giorni se l'era preparato quel discorso. Quante parole aveva immaginato e quante in realtà gli erano uscite davvero di bocca. Arrossì e abbassò gli occhi, aveva osato troppo, pensò che, come nelle sue più nefaste ipotesi, l'avrebbe ignorato.
Lei guardando l'impaccio di quel giovanottone, s'intenerì, le scattò dentro qualcosa, una specie d'istinto materno e si girò, tornando sui suoi passi.
Non la conosco, cosa vuole da me? Io non l'ho mai vista, disse lei ancora dubbiosa se scappare via o  sentire le ragioni di lui. Vorrei chiederle un appuntamento, vorrebbe uscire con me? A quei tempi si usava così, fermare una ragazza per la strada e chiederle di uscire. Lei non seppe perché, non capì cosa le fosse scattato dentro, lo guardò e si sentì al sicuro, annuendo gli rispose di sì.
Era estate, faceva molto caldo quel giorno, si dovevano incontrare a piazza Venezia, ai giardini di lato il Palazzo che un decennio e una manciata d'anni prima era stato del duce. 
Successe l'imprevisto che mette il dito in mezzo e se è destino è destino.
Lei a quell'ora doveva andare per forza a sbrigare delle pratiche per la famiglia in un altro posto. Non sapeva come contattarlo, così decise di andarci lo stesso ma un'ora prima. Se è destino, è destino, pensò lei, mentre si affrettava da via Nazionale per raggiungere la piazza.
Lui era già lì. Troppo  grossa l'aspettativa per l'evento, non era riuscito a stare fermo ed era partito con enorme anticipo, per essere sicuro di essere presente. Lo era stato. Camminavano fianco a fianco e s'avviarono a piedi verso il quartiere dove abitavano, in due lotti diversi, ma fianco a fianco.
Lui sudava, aveva atteso quel momento per chissà quanto tempo, se l'era immaginato, coccolato e stretto nelle mani e per paura che gli sfuggisse come una boccata di fumo fatta troppo in fretta, ora era agitato e faceva anche tanto caldo. La maglietta che indossava era inzuppata sulla schiena, scurendo il colore in chiazze di varie sfumature. 
Lei indossava un vestito leggero, stretto in vita e dalla gonna vaporosa, che si allargava come una corolla colorata, ai piedi le scarpette dai tacchi che tanto andavano di moda e ticchettavano sull'asfalto arroventato. Aveva i capelli scuri ondulati e mossi sulle spalle e due occhi dal colore cangiante, l'osservava di sottecchi mentre pensava che quel giovanotto aveva un qualcosa d'impacciato che lo faceva essere speciale. Lui si passava e ripassava un fazzoletto sulla fronte, per tergere il sudore e nel mentre parlavano, fitto, fitto, raccontandosi un po' della loro vita. 
Lui era figlio unico, l'unico che era sopravvissuto a parti difficili o morti premature. Viveva col padre da un paio d'anni, da quando la madre se n'era andata, portata via da un'influenza o forse da qualcosa di peggio. Si occupava di loro una sorella, nubile, di sua madre. Lui da poco, era entrato in servizio alla Stefer, la società che gestiva la nuova metropolitana di Roma. Faceva i turni, e a volte gli toccava la notte. Era di servizio alla stazione Ostiense, da dove partivano i trenini per il litorale. Aveva acquistato da poco una lambretta e il padre l'aveva fotografato accanto all'ambito oggetto. Vuoi vederla? Se vuoi potremmo andarci in giro da qualche parte, le disse. Mi serve per andare al lavoro, negli orari in cui i tram non passano, aggiunse.
Lei gli raccontò della sua numerosa famiglia, erano cinque figli, aveva due sorelle e due fratelli maschi, lei la secondogenita. Suo padre, tipografo, aveva lavorato prima al poligrafico, poi durante il fascismo, licenziato per non essersi fatto la tessera di partito, aveva trovato un altro lavoro sicuro. Lui le disse che anche suo padre, in quegli anni era stato licenziato dalle ferrovie, dove era macchinista, per lo stesso motivo. Che una volta aveva ricevuto un ceffone per non aver voluto alzare il braccio nel caratteristico saluto fascista, ma lui, non l'avevano più riassunto e avevano fatto la fame. Erano stati anni duri e difficili, gli toccava partire a piedi e raggiungere Circo Massimo, dove venivano distribuite razioni di zuppa per i poveri. Una volta avevano preso una pecora, non si sa come, né dove, e l'avevano portata in casa, per ammazzarla ma poi ci aveva dovuto pensare il vicino perché quella belava come una dannata e suo padre non sapeva cosa ne doveva fare. Ne abbiamo viste di cose brutte, aggiunse lei, morti, bombardamenti e fame.
Lei gli raccontò che lavorava alla Banca d'Italia, che era stata assunta una decina d'anni prima, verificava che i numeri di serie delle banconote appena stampate non avessero errori, altrimenti le scartava e le mandava al macero. Erano i tempi della ricostruzione, di cose e persone. Suo padre si era messo in proprio, aveva aperto una tipografia nel quartiere ma i soldi che avevano gli servivano tutti. Con quello che guadagnavano lei in particolare ma anche i fratelli, sostenevano i bisogni della famiglia, prima che l'attività prendesse il via. Avevano da poco traslocato nel nuovo lotto, perché dove stavano prima si stava stretti come sardine.
Fu così, tra un racconto e l'altro che cammina, cammina lui scoprì che lei non era così giovane come se l'era aspettata ma aveva undici mesi più di lui ma ne dimostrava molti di meno, praticamente sembrava una ragazzina.
La vuoi una spuma? Le chiese lui assetato. Le sorseggiarono guardandosi negli occhi e sorridevano alla gioventù, alla vita che li aspettava all'angolo, pieni d'aspettative e di speranze.
Si fidanzarono e lui la portò a fare un giro sulla lambretta. Era distratto nella guida, l'attenzione gli veniva rapita dai paesaggi, dalle onde del mare e lei finì su un mucchio di sabbia, impaurita. Da quel giorno la lambretta finì nel dimenticatoio, non prima però che lui si slogasse una spalla cadendo sui binari del tram. Quando lei lo raccontava, asseriva che lui non era proprio tagliato per la guida, infatti non guidò mai una vettura.
Passavano i giorni, tra rientri a casa precipitosi per via degli orari ristretti di lei e di lui. A volte pochi minuti per vedersi dovevano bastare a colmare l'assenza. 
Non furono molti i mesi di fidanzamento, era meglio sposarsi, cogliere l'attimo, perché ora i soldi ci sono e domani chissà. Lei li aveva messi da parte quasi alla chetichella, strappandoli alle esigenze della famiglia, spicciolo per spicciolo. Alla fine fu deciso un matrimonio doppio, lei e sua sorella, perché se rimango qui non mi sposo più. 
E poi? E poi figlia mia, raccontava lei anni dopo, la vita è stata difficile piena di gioie e dolori, di convivenze difficili con tuo nonno, di soldi contati, un po' la vita di tutti. Parti euforico, pensi a chissà che cose costruirai, che la tua vita sarà migliore di quella dei tuoi ma poi, la vita è così, un po' rosa e un po' grigia e, a volte, i due colori sfumano uno nell'altro. 

Lui ormai se n'è andato da un bel po', portato via da un ciclone chiamato cancro, ha lasciato un vuoto, tanti ricordi ormai solidi nel passato, la solitudine in  vecchiaia, ma lei, quasi novantenne e ancora bella, ci parla, lo sogna e lo sente lì, vivo e vicino come il giorno in cui le disse: Buona sera signorina!

Dedicata a Franco e Ivana, una vita vissuta insieme, condividendo tutto, figli, nipoti e infine la malattia.

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