L'otto dicembre, è tradizionalmente la data d'inizio dei preparativi al Natale. Si prepara l'albero, il presepe, si allestiscono le luci sui balconi e all'esterno. Mentre mi accingevo a tali attività, la mente divagava e mi sono rammentata dei Natali passati. Forse, il fantasma dei miei Natali passati mi sussurrava all'orecchio, come quello di Uncle Scrooge. Tra una pallina di plastica rossa e una collana di luci da sistemare, ho rivissuto con nostalgia le vecchie atmosfere, quando gli zampognari, allietavano le vie di Roma, con le loro ciaremelle. Ora non si sentono quasi più, sostituiti da Babbi Natale jazz.
Il Natale, allora, era molto meno ricco, degli ultimi trascorsi, pieno però d'affetto e coesione familiare. Meno corse sfrenate al regalo e più fratellanza. Sarà la nostalgia, oppure i ricordi distorti di una ragazzina appena in grado di scrivere, che mi viene un nodo alla gola al solo pensare alla letterina di Natale di quegli anni.
Una vecchia letterina di Natale |
Iniziava così l’immancabile letterina di Natale, tutta ricoperta di porporina. La scrivevamo solitamente a scuola, infarcendola di sdolcinate promesse sull’essere più buoni, sul non litigare più coi fratelli, augurandoci che tutti i bambini del mondo potessero trovare la pace. Tutte promesse poco mantenute, che duravano la notte di Natale o poco più.
L’alberello in casa mia, veniva fatto nel tinello o anticucina, posto in un angolo, vicino al televisore, lì dove c’erano le prese di corrente per le luci. Le palline rigorosamente di vetro, quelle plastificate erano di là da venire. Il presepe, ricoperto di ovatta, che simulava la neve.
La sera della Vigilia, tutta la famiglia: noi figli, i genitori e mio nonno, ci riunivamo attorno alla tavola, semplicemente apparecchiata, senza sfarzi e senza tutti i fronzoli che si mettono oggi. Niente centro tavola ad effetto, né candele nei candelabri, una bella tovaglia linda e la cena un poco più ricca.
Apriva il pasto, una tradizione tutta nostra, il classico pesce finto, con patate e tonno, ricoperto da capperi e prezzemolo. Era una reminescenza degli anni di magra, non proprio di guerra, quando non c’era tanta ricchezza per riempire la tavola. Una ricetta scovata da mia nonna Margherita, su un vecchio giornale. In sua memoria, la tradizione continuò durante tutta la mia infanzia e continua ancora, in ricordo ora anche di mio padre. Seguivano poi i classici fritti romani con baccalà, broccoli e carciofi. Prima di mettersi a tavola però, c’era il rito della letterina.
Posta nella sua busta, veniva a sua volta, incartata dal tovagliolo di papà. Lui tutti gli anni, appena seduto, lo apriva apposta, fingendo di metterlo sulle ginocchia e immancabilmente c’era la domanda: “Cos’è questa cosa?” Cercava di rimanere serio, con l’aria un po’ burbera, mentre si vedeva lontano un miglio che tratteneva a stento le risate. Noi ci cascavamo sempre. A bocca aperta, dandoci di gomito l’un l’altro, aspettavamo che l’aprisse e la leggesse. Lui tutti anni fingeva di credere alle nostre promesse, mamma complice: “vedrai che quest’anno saranno davvero più buoni” e le veniva da ridere.
Dopo la cena, si tirava fuori la tombola, nonno ci teneva molto alla partita. Una volta cresciuti un po’, giusto in grado di leggere i numeri, tenere il tabellone toccava a turno. Ovviamente c’arrabbiavamo quando non si riusciva a vincere nulla. Poi in ora decente tutti a letto. Babbo Natale per noi era un personaggio sconosciuto. Quella era la notte di Gesù Bambino. Era la Befana, quella che dispensava doni e dolcetti. La sera del 5 gennaio, venivamo spediti a letto presto, perché altrimenti “la befana non passa più”. Certe volte, mamma lasciava qualche biscotto sotto mia richiesta. La povera Befana avrà avuto sicuramente fame, dopo tutto quel volare. Papà però, non voleva tanto stare al gioco e mi ricordo di una sera, che si stufò della storia dei biscotti e sbottò su “con un finiamola con ‘sti biscotti!” o qualcosa del genere, perché le parole non le ricordo, però ricordo bene il nodo in gola e le lacrime che cominciavano a sgorgarmi fuori dagli occhi, con mamma che cercava di rappezzare la cosa.
Kamomilla e il suo primo albero |
Per come me la raffiguravo io, la befana era una donnona, un po’ bruttina, suo malgrado, e se ci restava incastrata in quel buco?
Non ti preoccupare, mi rassicurava mamma, è magica, diventa piccola, piccola e ci passa bene. La cosa però non mi convinceva del tutto. Come aveva fatto quella grossa macchina rossa a pedali, a passarci? La mattina, con l’eccitazione addosso, che hanno tutti i bambini in queste circostanze, m’alzavo per correre in cucina. C’era sempre un grosso sacco di carta pesante, alto come me, con dentro giocattoli e dolcetti. Sul sacco una grossa scritta nera: STEFER. Quando qualche anno più tardi, la Befana divenne solo un ricordo, scoprii il perché di quella scritta. Era la befana del dopolavoro, dell’azienda della metropolitana di Roma, dove lavorava papà.
Il vecchio amato Pilù nel giorno della Befana |
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