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sabato 30 marzo 2013

Fu a Roma





Fu a Roma. La città dal clima meraviglioso, dalle primavere lunghissime e profumate, pitturate dai colori dei fiori sui sette colli. La città dai tramonti, le cui dita rosate, sfiorano di luce romantica gli innamorati al Pincio.
Fu a Roma.
Un rumore lontano, proveniva dagli scuri accostati. Rumore sconosciuto ai più giovani. Le voci sembrano giungere attraverso un tunnel d’ovatta. Alcuni pensarono di avere le orecchie tappate, altri s’affacciarono per vedere.
Fiocchi bianchi, fitti, cadevano dal cielo. Era dicembre, mancavano pochi giorni al Natale.
Fu giorno di festa in città. Le scuole non aprirono i portoni. I giovani e i ragazzini, sembravano impazziti. Si riversarono per le strade che iniziavano ad imbiancare.
I cellulari scaricavano fiocco a fiocco, messaggi di scambio sulla situazione nei vari quartieri.
Erano un paio di decenni che sulla capitale non nevicava così.
Al nord, efficienti e organizzati, avrebbero saputo cosa fare. Qui no, ma non importava a nessuno.
Gli scatti per immortalare il grande evento, si incrociavano, fissando nell’attimo del lancio, una palla di neve, un pupazzo in costruzione, la gente che toccava la neve per assorbire la sensazione che poteva donarti.
C’era chi apriva la bocca e aspettava che il fiocco si posasse sulla lingua, per assaporarne il freddo e inconsistente sapore acqueo.
Continuò nell’euforia per tutta la giornata e non si parlava d’altro. Nei bar, davanti al caffè bollente, nei supermercati alle casse, alle fermate della metropolitana, l’unico mezzo ancora in servizio.
Continuò per tutta la notte e poi il giorno dopo, continuò e continuò.
Dopo un paio di giorni, l’euforia e la gioia per l’evento inaspettato, cambiarono repentinamente assieme ad una folata di vento gelido.
Il disagio per le strade ormai invase dalla neve, divenuta sporca e striata dalle poche ruote, dotate di catene, aveva tramutato gli animi.
Nessuno aveva l’equipaggiamento adatto. Le scarpe coi tacchi vertiginosi, erano inservibili, così come le scarpe da trecento euro dei ragazzini alla moda.
I negozi d’articoli sportivi vennero presi d’assalto e i prezzi degli articoli richiesti, volarono alle stelle. Si riempirono le tasche degli increduli negozianti, che smerciarono anticaglie di almeno dieci anni prima.
Due giorni e non si trovò più nulla. Le soffitte  e le cantine, vennero allora battute palmo a palmo. Chissà dov’erano i vecchi scarponi del nonno. Ci si districava tra ragnatele e strati di cose inutili ammassate in attesa di un riutilizzo.
L’imprecazione contro l’autorità pubblica che avrebbe dovuto provvedere, divenne il motto del momento. Sui giornali e i telegiornali, si analizzava la situazione da ogni punto di vista, scaricando il problema dall’una all’altra delle associazioni preposte a risolvere il problema.
La neve, ridendosela, cadeva a manciate, a mulinelli, a fiocchi grandi e piccoli.
Aveva ricoperto di un folto strato tutto, contata centimetro per centimetro.
La grande cupola, onore e vanto dei romani che l’appellano affettuosamente “il Cupolone” era tutta bianca, mai s’era vista così. Il papa nelle udienze, faceva capolino dai suoi appartamenti, la piazza era sempre più vuota. Le campane che per secoli avevano richiamato fedeli, venivano ignorate per il troppo freddo. La fede, labile da tempo, era stata pietosamente nascosta sotto una coltre di neve, anche quella degli irriducibili, che non pochi giorni prima, tuonavano contro l’immoralità dilagante.
L’ovattato silenzio andava a braccetto con lo strato nevoso, sempre più spesso, d’un biancore accecante.
Stalattiti di ghiaccio pendevano dagli occhi vuoti del Colosseo, dalle fontane e fontanelle, dai “nasoni”. L’acqua s’era trasformata in bellissime sculture eteree e trasparenti.
 Cominciarono le morie di animali e di uomini randagi.
I rifugi, le stazioni della metropolitana, non bastarono più. Migliaia di diseredati, di dimenticati dall’uomo, dimentichi loro stessi di farne parte, erano ammassati e stesi sugli ormai luridi pavimenti delle stazioni. Le associazioni umanitarie, non riuscivano a farne fronte, mal organizzate da sempre, eternamente in lotta tra loro per accaparrarsi le risorse pubbliche, non bastavano per tutti i diseredati.
I fiocchi impietosi, cadevano da un cielo bianco latteo, uniforme e crudele. I giorni passavano, tanti, quanti i fiocchi caduti.
Nel resto del Paese, iniziava una timida primavera ma nella capitale l’inverno aveva dimenticato di sloggiare.
Gli addobbi natalizi, buttati sotto la spessa coltre di neve, giacevano marcendo all’addiaccio,  con luci fulminate nell’intermittenza tra un sì ed un no.
Cominciarono a scarseggiare i generi alimentari. Il freddo pungente penetrava  silenziosamente, come un gas mortifero, s’era insinuato in ogni anfratto. I riscaldamenti non riuscivano a contrastarlo.
C’era così tanto freddo che si era congelata anche la solidarietà.
Chi, previdente aveva accumulato le scorte all’inizio della Grande Nevicata, le aveva nascoste agli sguardi famelici dei vicini.
Chi cercava di chiedere almeno una tazza di farina, tornava a testa bassa con la tazza vuota. Chi aveva la farina, non la divideva con nessuno. La celava avaramente come un tesoro  d’Arpagone.
I vecchi, allo stremo delle forze, invocavano la morte per non essere di peso. Raccontavano del gelido inverno del quarantaquattro, sotto l’occupazione tedesca, allora erano sopravvissuti agli stenti, mangiando quello che trovavano. Allora, la gente aveva un cuore, ci si aiutava nel bisogno. Ora l’egoismo, sempre nominato e ostentato, mai seriamente analizzato a livello sociale, era diventato il fulcro delle esistenze. Pochi conoscevano il latino, dimenticato ormai da un insegnamento scricchiolante. Tutti però fecero propria la frase: “mors tua, via mea”.
Gli aiuti dal resto del paese, non riuscivano ad arrivare. La capitale era completamente isolata. Una di quelle bocce di vetro, che scosse, mostrano un paesaggio sotto la neve cadente, una città cristallizzata nel ghiaccio.
Cadeva ancora la neve, dopo novanta giorni da quel festoso inizio.
I palazzi del potere, sempre al centro della notizia del giorno,  si erano svuotati, trasferiti altrove. Sul Quirinale, la bandiera tricolore sventolava ormai stracciata dai venti gelidi, che nella capitale, si erano eternamente stabiliti, ma il Presidente non c’era, anche lui fuggito ante tempo. Fuggiti tutti, in un silenzio assordante.
Erano rimasti solo di derelitti, i poveri e quelli che non avevano voluto lasciare le loro cose.
Le case abbandonate, erano state saccheggiate, prima per denaro e cose preziose da rivendere, poi per il cibo e vestiario.  I bisogni cambiano secondo le esigenze. Quello che un tempo era snobbato e gettato nei cassonetti, veniva ora barattato a peso d’oro. I cassonetti rovistati soltanto tre mesi prima solo dagli zingari, ora erano meta di continui pellegrinaggi di gente allo stremo.
Nell’opulenza erano colmi di tutto, nell’indigenza, mai raccolta differenziata, era stata più oculata ed ecologica.
Al sesto mese di neve, quando nel resto d’Italia, erano tutti sdraiati sulle spiagge a prendere il sole, Roma non fu più capitale.
Era stato indetto un referendum e molte erano state le città candidate. Coloro che ne erano fuggiti, mascheravano il loro accento, si vergognavano di esserci nati, come se la grande calamità, fosse stata una punizione divina per chissà quali peccati. Il presente s’era preso gioco del grande passato della città Eterna.
Non più tintinnio d’alabarde, non più tonache al vento scompigliate dal ponentino. I sette colli livellati da una coltre impalpabile ma pesante come piombo, erano tavola piatta, liscia. Lo sporco, il marcio e l’umana immondizia, celati dal biancore gelido che aveva anestetizzato i dolori e le miserie di tutta la penisola, in un concentrato urbano.
Un’enorme macchia nera sulle mappe e nelle coscienze, questo era Roma
Trecentosessantacinque giorni durò la nevicata. I palazzi erano quasi completamente sommersi dalla neve.  Nessuno aveva spalato, nessuno aveva pulito. La gente rimasta s’era asserragliata sui tetti ancora praticabili, aveva bruciato tutto per scaldarsi, i fuochi ardenti illuminavano le notti gelide.
Un medioevo di ghiaccio, aveva dapprima stravolto e poi cambiato le menti.
Molti erano impazziti.
In quei pochi rimasti, un barlume di solidarietà aveva iniziato a manifestarsi. Un pezzo di pane ceduto a chi proprio non ne aveva. Una piccola fiammella d’amore che ardendo con prepotenza stava facendo divampare un grande incendio. Fu allora che smise di nevicare. Improvvisamente, come era iniziato. Le antiche ipocrisie si sciolsero come neve al sole.
E fu l’alba di un nuovo giorno.




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