Telemaco Signorini - Le colline di Settignano |
Dice il testo di una canzone:
Io sto in città
non mi ricordo più la primavera che colore ha
amici non ne ho
e parlo per lo più con l’orologio che va che va che va
Ormai non è mistero che io sia nata e cresciuta nel quartiere della Garbatella a Roma, denominato da sempre, città giardino. Mi reputo fortunata, rispetto ai miei concittadini, ma è pur sempre vita cittadina. Ora abito in una zona di Roma, dove il solo colore è quello delle facciate dei palazzi, con qualche pianta qua e là, che asfittica cerca di resistere alle polveri sottili.
Come dice la canzone non m’accorgo della primavera, né di tutte le altre stagioni, perché lo scorrere del tempo, in città, è sempre uguale, cambiano soltanto le temperature.
Non ho conosciuto la campagna che in età adulta. Ragazza di città, catapultata per la prima volta tra il verde e la natura. Il mio primo approccio: la vendemmia.
Se fossi un pittore, userei colori dorati per descrivere la scena, il giallo acceso dei grappoli, le foglie che iniziano ad ingiallire, il rosso dell’interno dei fichi maturi. Se fossi un poeta, descrivere la dolcezza dell’aria, il profumo dell’uva matura, la brezza fresca d’autunno che fa ondeggiare le cime dei pini.
La mia prima entrata in quel mondo non fu così.
Il mondo contadino non ammette ignoranza, come la legge. Mi armarono di cesoie e secchio. Io con le mie scarpette dal tacco alto. Fu scontato che io sapessi che e come fare.
Mi guardavo attorno smarrita. Che fai? Non lavori? E le scarpe? Non ce le hai più comode? Tieni mettiti queste! Esclamò la futura suocera, mentre mi parlava come fossi un bimbo di tre anni. In quell’ambiente in un certo senso lo ero.
Ma come si fa a staccare l’uva? Benedetta ragazza, così! E mi fece vedere.
Eravamo in tre o quattro donne, lei, zia Checchina, io, la mia futura cognata, tutte con secchi e cesoie. Zi’ Checchina, come l’abbiamo sempre chiamata, era velocissima, il secchio si riempiva e si svuotava a ritmo incalzante. Gridava, alla sua maniera, perché un po’ sorda, prendi questi, cogli quello, in testa un fazzolettone a cui aveva fatto i nodi ai quattro lati.
Erano chine, i grappoli pendevano in basso nei filari. Le imitavo, lentamente, perché mi dava fastidio il succo dell’uva appiccicato sulle dita. Le vespe giravano fameliche come falchi in attesa della preda. Un continuo ronzio nelle orecchie e il ribrezzo, la paura che nascondevo per non essere derisa come cittadina sprovveduta.
Gli uomini anziani in cantina, attorno al tino da riempire, mio marito che non avevo ancora impalmato, faceva la spola tra i filari, riempiendo i bigonci, con l’uva che straripava dai nostri secchi. La carriola era pesante e spesso gli ondeggiava col rischio di capovolgersi.
Quanti “bigonzi” hai caricato? Gridava zi’ Checchina in dialetto, Guarda che qui ce so’ solo du’ filari e poi avemo finito, sbrighete!
Da sotto la cantina il vociare dei più anziani dal quale spiccava la voce di Zi’ Pio, marito di Checchina, che dirigeva i lavori, tra botte e bigonci da svuotare.
Fu divertente alla fine, anche se un pochino traumatico. Dopo la vendemmia, ci fu la raccolta dei fichi, con le vespe che giravano attorno come satelliti ai pianeti. Molti erano caduti a terra, tonfando tra spruzzi di succo zuccheroso. Un tappeto rossiccio, ricopriva tutto il vialetto e le vespe, i calabroni banchettavano a frotte. “Sta’ attenta che quelli so’ ammazza somari!” mi gridò zi’ Checchina nelle orecchie. Ammazza che? Che c’entravano i somari? Certo che il vespone, era davvero grande, mi sembrava quasi di vedermi riflessa nei suoi occhi sfaccettati. Peloso e ronzante, giallo e nero. Come nun lo sai? Eh no! Tre puncicate de quello, ammazzeno un somaro. Andiamo bene, pensavo, mentre la guardavo mascherando ribrezzo e indietreggiavo spaventata. Dietro mi seguiva la sua risata.
Poi la raccolta dell’erba di campo. Vedi? E’ questa diceva la futura suocera armata di coltello e china a terra. Quella? E’ facile pensavo, stavolta non farò la figura della sprovveduta ragazza di città.
Ne presi una busta intera. Orgogliosamente gliela porsi e lei rovistando, me la svuotò quasi completante. Non buona, e buttava via, non buona e gettava a terra. Alla fine ne avevo azzeccate tre, che molto più tardi imparai a chiamare col loro nome: Tarassaco e non “pisciacane” che al solo sentire, ti veniva la nausea. Guarda che so’ boni, li chiameno così, nun so perché! Esclamò lei, mentre guardava la mia espressione disgustata. Fanno bene, so’ diuretici. Che c’entrassero i cani non so, però pensai fosse per quello.
Quello fu l’impatto, il D day della cittadina sprovveduta. Molti altri seguirono.
A vendemmiare era diventata svelta, a maggio mi divertivo a cogliere le ciliegie. E scoprivo l’avvicendarsi delle stagioni.
Inverno: nebbia, freddo, alberi spogli, coi rami protesi verso l’alto, scheletrici, in pensione temporanea.
Primavera: profumo di fiori, erba alta e verde, fiori di campo e starnuti da allergia, fiori rosa… fiori di pesco, di pero, di melo, di ciliegio, bianchi, come coriandoli si spargevano al suolo ad ogni alito di vento, ti restano attaccati ai capelli, adornandoti come ninfa dei boschi e poi… le fave da cogliere per il primo maggio, quelle da mangiare col pecorino romano.
Estate: il fieno alto, da tagliare, le balle lasciate ad asciugare al sole di giugno. Il caldo d’agosto, le cicale assordanti, le prugne da cogliere, le marmellate fragranti da fare, i pomodori rossi e succosi, le salse di pomodoro da preparare, travasando il succo appena passato e profumato nelle bottiglie da bollire.
L’ho scritto poeticamente ma ogni lavoro è stato bagnato dal sacro sudore della fronte, condito dalle grida di ‘zi Checchina, dagli incitamento di mia suocera ma anche dai suoi insegnamenti.
E poi fu la zappa!
Fu il giorno che decisi di dissodare quel fazzolettino di terra che chiamiamo “aiola”, di lato alla casa, ombreggiata da una pergola d’uva. M’ero messa in testa di farci il prato all’inglese. Povera ingenua illusa. La zappa pesava, la terra d’agosto, dura come acciaio non si scalfiva ai miei colpi di zappatrice inesperta. Con la schiena a pezzi ci misi giorni a finire. E poi, la vanga! Altro attrezzo sconosciuto. E che ci vuole? Pensai, metti il piedi sull’apposito sostegno, spingi e rivolti. Ma sai quanto pesa la terra? Purtroppo l’ho imparato con la pratica. E venne la semina dell’erba. Seguii esattamente le istruzioni scritte sulla confezione, come se fosse una ricetta da realizzare. Le formiche? Quelle non erano incluse nelle istruzioni. File interminabili, lunghe, di formiconi neri e lucenti che scavavano benissimo, senza zappa o vanga, e s’andavano a portar via i semini faticosamente messi al loro posto. La natura ha fatto comunque il suo corso, il prato è uscito fuori a chiazze, ma è uscito e io mi sono sentita orgogliosa per il tempo d’un ronzare di ape. Perché poi, l’erba s’è seccata, benché irrorata ad ore, e la famosa erba cattiva di biblica memoria, quella da bruciare, ha soffocato la mia tenera erbetta.
Poi fu la volta del ciclo di marmellate. La prima di ciliegie divenne una massa solida caramellata, dopo ore di snocciolamento e mani annerite dal succo di ciliegia. Esperimenti da chimica in erba, è proprio il caso di dire, ho provato a bollire persino i piccioli perché sono diuretici e in cucina non si butta via nulla.
Le more, mani distrutte dai rovi, finchè ho capito che bisognava mettersi i guanti appositi che però rischiano di spappolare il frutto maturo. Ore a passare quei benedetti semini, col passaverdura, ma che soddisfazione nello spalmare il sudato cucchiaino di marmellata sulla fetta biscottata nel freddo dell’inverno.
La marmellata di cotogne, col mosto appena fatto. Poetica immagine di barattolo appena aperto. Nessuna traccia delle vesciche alle dita delle mani, procurate per sbucciare le cotogne. Conoscete quanto siano difficili da sbucciare? La campagna è una continua scoperta, è sudore della fronte, è una battaglia persa nei confronti di una natura che cerca di avanzare e imporsi.
Ma è anche amore a prima vista. Lo svegliarsi al canto degli uccellini all’alba. Le cicale che assordano la pennichella pomeridiana e cessano d’incanto lasciando posto al grillo canterino.
E la sera rumori sconosciuti, fanno tremare come film dell’horror. Dove sono i clacson delle macchine, i motori rombanti, le motociclette? Rumori cittadini che cullano i nostri sonni, rumori conosciuti che l’orecchio cittadino non percepisce più.
In campagna invece, l’orecchio percepisce rumori impercettibili. Chi c’è là nel solaio che scorrazza? Sicuramente non l’inquilino di quel piano di sopra che, il tuo orecchio, istintivamente ti aveva suggerito. Fantasmi? Troppa fantasia, probabilmente topi molesti, toccherà metterci le trappole.
Poi i fruscii che fanno sobbalzare, sembra che qualcuno sia entrato a ghermire la quiete notturna. Un gatto randagio, era solo uno spelacchiato gatto.
E una volta fu un riccio. Con la luce della potente torcia negli occhi, saltammo entrambi, alla vista reciproca. Lui puntandomi contro i suoi aculei come se volesse spararmi una faretra di frecce. Povera bestiola!
Ci vuole qualche giorno per abituarsi a tutto questo, quando dalla frenesia cittadina si passa alla quiete della campagna. C’è sempre una novità, una scoperta alla Darwin. Un nido di vespe nella serratura del cancello, come sarà venuto in mente alle bestiole?
Ora non le temo più, io non molesto loro e loro se ne infischiano di me. Bisogna capirla la natura e assecondarla, amarla, non violarla e lei ti ripaga. Se alzi lo sguardo nel cielo cristallino, puoi scorgere la figura regale del falco che sembra salutarti di lassù. E’ Filippo, come lo abbiamo chiamato, il falco di zona, che come un poliziotto di quartiere sorveglia.
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