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martedì 23 febbraio 2016

Una moglie dietro l'Onda... Gravitazionale

realizzazione grafica delle onde gravitazionali



La notizia della scoperta del secolo, le onde gravitazionali, è recentissima.  Al di là delle spiegazioni scientifiche, delle conferenze stampa e dell'interesse dei mezzi di comunicazione, forse alla gente comune poco importa di sapere cosa sono e cosa potrebbe portare in futuro una tale scoperta.
Dopo una settimana non ne parla più nessuno e tutto finisce nel calderone tritatutto dei notiziari e dei social, c'è sempre una notizia più fresca e più succosa di cui parlare.
Per me, invece, è stata la fase finale, la ciliegina sulla torta, il culmine se vogliamo dire, non ancora finito, di anni e anni di sacrifici, rinunce e assenze.
Vi racconterò qui il vissuto della moglie di uno di quegli scienziati, fisico, che per anni ne ha viste e sentite di cose, di cui poco o nulla si è parlato. 
Comincio con un “c'era una volta” così tanto per dare un tono alla storia.
C'era una volta una giovane ragazza, la sottoscritta, che s'innamorò perdutamente, di un novello laureato in fisica.
A dire il vero lo conoscevo già da una manciata d'anni, per una serie di motivi che ora non c'entrano con quello di cui parlerò. 
La nostra storia inizia, nello stesso momento in cui lui comincia lavorare a Ginevra. Da poco tempo era entrato nel progetto di ricerca sulle onde gravitazionali, su cui aveva fatto la tesi di laurea. Si trattava di lavorare all'antenna gravitazionale al Cern, la prima su cui ha lavorato, “Explorer”, ogni antenna ha sempre avuto un nome. Tralascio le spiegazioni tecnico-scientifiche che restano ostiche anche a me, aggiungo soltanto che veniva chiamata “antenna” perché si ipotizzava potesse captare i segnali delle onde g. ipotizzate da Einstein.
Per quel che riguardava la nostra vita privata, la cosa ci portò a programmarla tra una partenza e l'altra, il che avveniva due volte al mese.
L'attesa si faceva pesante, condita da telefonate brevi da uno Stato e l'altro. Erano belli i ritorni, il ritrovarsi dopo tanti giorni di separazione ma nulla mi faceva presagire, che quello sarebbe stato il modo d'impostare tutta la nostra vita. Ignara di ogni cosa, ogni volta ho sperato che il tempo delle sue assenze si accorciasse o si tramutasse in lunghe pause lontano dalla Svizzera.
La sua passione, fin da bambino, fu sempre lo studio della fisica e dell'astronomia che ben si adattano al suo modo di essere e pensare, così fu ovvio che tutta la sua vita si muovesse attorno a formule e materia cosmica che inevitabilmente ha finito per avvolgere anche me.
Scegliere di lavorare nella ricerca, ha sempre comportato ostacoli insormontabili da superare e tanti bocconi amari da mandare giù, allora come oggi.
Per ben sei anni, il sognatore di stelle, ha lavorato gratuitamente, inseguendo una carota, il posto da ricercatore, che spesso però celava il bastone dello sfruttamento, dell'umiliazione di elemosinare ciò che doveva essere dato per merito di una laurea da centodieci e lode. Ore e ore di dedizione certosina, chiuso nel laboratorio sotterraneo del dipartimento di fisica, ove a volte, trascorreva anche la notte, quando c'era da sorvegliare l'esperimento. Era un sognatore, lo è restato, pensando sempre che prima o poi, i sacrifici del lavoro e il merito, sarebbero stati premiati. Orecchie volutamente sorde alle mie rimostranze, sul fatto che il merito non paga in Italia. Non ci voleva credere ma molti gli passavano avanti e il posto, rincorso dietro alla carota, restava sempre lontano. Poi ha dovuto suo malgrado imparare a giocare anche a scacchi, poco e male e solo per una serie fortunata di circostanze, venne anche il suo di turno.  Finalmente potevamo sposarci. L'avevo messo io il veto, nessun matrimonio senza sicurezza economica. Lo stipendio però tardava, allo stato non importa se tu nel frattempo devi mangiare, sulla carta il posto c'è ma la burocrazia deve fare i suoi passi da lumaca. Per fortuna che c'era il mio di stipendio e non sempre arrivava a fine mese. Come ogni cosa tutto passò tra un viaggio quindicinale e l'altro, e io che avevo il terrore di stare sola in casa di notte e per qualche tempo ad ogni sua partenza, rifacevo le valigie per tornare dai miei. Ho dovuto abituarmi per forza di cose, anche se mi è costato e la solitudine in attesa di una telefonata, è stata un abisso da tenere a bada, a volte col cibo.
Ci parlavamo più al telefono che di persona, c'erano i lunghi racconti dei fallimenti sulla ricerca, di qualche pezzo meccanico che si rompeva, meccanismi mai esistiti, progettati da loro e per questo difficili da far realizzare e difficile prevederne gli errori. E giorni e mesi per ricercarne i motivi. La domanda era, le avrebbero mai scoperte queste benedette onde? Nessuno lo sapeva e molti nell'ambiente, li guardavano un po' come marziani, quasi stessero ricercando la pietra filosofale dell'antica alchimia. La loro era una piccola nicchia nella fisica, molto più importanti quelli che studiavano le particelle, quelli che ottenevano più finanziamenti e più posti prestigiosi.  Ore al telefono a raccontare, ore al telefono a consolarlo, supportarlo e fargli sentire che aveva un nido ad attenderlo. Ad ogni suo rientro preparavo i suoi piatti preferiti, dopo tanta cucina francese e svizzera e i fine settimana in cui era a casa, si festeggiava, fin dall'aeroporto, quando, allungando il collo, l'intravedevo da lontano avviarsi verso l'uscita, trascinandosi dietro la valigia piena di panni sporchi e pezzetti di casa. Col tempo, le sue valigie sono diventate un'estensione casalinga, ci si trova di tutto. Adattatori per ogni presa di corrente, la piccola borsa per le boccettine e mini dentifricio da viaggio aereo, che viene cambiata con quella per la toilette personale, in caso di viaggio in treno. Nel suo zaino sosta di tutto, perfino il coltellino svizzero dai tanti usi acquistato a Ginevra, ormai  in era preistorica. Ora, con l'avanzare dell'età anche le inevitabili medicine. Ogni stanza d'albergo viene da lui sistemata allo stessa maniera, così, tanto per rifare un po' casa, quella casa che a lui è mancata e che è me è andata stretta.
Ne ha passato di tempo negli alberghi, sicuramente una buona porzione della sua vita, tra viaggi per la ricerca e viaggi per i congressi, ha conosciuto paesi e cucine estere, prima della globalizzazione e della cucina fusion. 
E la sottoscritta? Io restavo a casa a sentire i suoi racconti sui piatti assaggiati a Gerusalemme, o la renna in Finlandia. Poi fu la volta in cui avrei finalmente viaggiato con lui fino in Cina e visitato il Tibet, ma restò un sogno, arrivò l'erede e io restai a casa, a sentire le descrizioni di un Paese di cui al tempo non si parlava tanto, dell'assaggio del serpente arrostito che di sapore somiglia al pollo o delle uova di cento anni.
Essere madre ha comportato ovviamente un carico molto pesante che si è aggiunto a quello già esistente. Ho lasciato il lavoro, per dare spazio a lui e al suo lavoro. Per il figlio almeno un genitore doveva essere presente. Ho imparato a coordinare la vita a seconda dei suoi viaggi di lavoro. C'era da portare il figlio dal pediatra e che fare? “Aspetta che torno e ci andremo assieme". 
“Aspetta che torno”, diventò il mantra della nostra vita. Lo facciamo quando tornerò. Nel frattempo però, la vita non si fermava perché c'era la nuova antenna da montare, il  “Nautilus” , così chiamata in memoria di Giulio Verne. 
Aspettare la sera, aspettare lo squillo del telefono, perché io non potevo chiamare. C'era il figlio con la febbre e l'ansia e la responsabilità da parte mia da tenere a bada. Che potevo dire? Minimizzare per non farlo preoccupare oppure meglio la verità? Ma al sentire la sua voce, mi accorgevo che la testa era tutta da un'altra parte, che ci voleva sì tanto bene ma eravamo lontani e lì, tanti i problemi da risolvere, perché le date dei programmi fatti, si accavallavano e i ritardi diventavano mostruosi. Avevano il capo col fiato sul collo, era depresso per gli insuccessi e io lo consolavo pensando che la febbre di un treenne non era così grave. Le febbri erano come le ciliege, una tirava l'altra. La mia divenne una vita da reclusa a fare da mamma e infermiera, a giocare coi peluche e mettere cartoni animati, a correre ogni cinque minuti, al richiamo del pargolo febbricitante. Passavano i mesi e io non potevo uscire. L'ora d'aria durava il tempo di una spesa frettolosa, quando venivano i nonni.
“Io voglio papà!” Lo gridava piangendo e puntando i piedi.
Allora glielo spiegai con le parole più facili che trovai, che il papà stava lontano perché faceva un lavoro importante ma gli mancavamo tanto. E quando il piccolo, in strada, guardava il cielo, in realtà stava guardando gli aerei che passavano. Ad ognuno gridava puntando il dito: papà! 
Il cuore mi si stringeva perché lui soffriva la mancanza come me, ma senza le cognizioni di un adulto. 
E la vita sua, la mia, diventavano un'attesa infinita per quel rientro, che sarebbe restato un soffio e ci si sarebbe stretto di nuovo il cuore a vederlo andar via.
Sentivo il grande bisogno di parlare d'adulta con adulti, non uscivo ma avevo il telefono. Passavo ore con i miei e a volte cercavo amicizie, coetanee, ma la gente non aveva tempo da perdere con una che scoccia telefonando, per chiacchierare e te lo facevano capire.  E inesorabilmente arrivò l'adolescenza e le ribellioni, i musi lunghi, le ore a capire cosa avesse, la paura di non farcela da sola a fronteggiare la tempesta ormonale. Unico punto fisso, la frase: “quando torna papà”? Liti su liti tra me e l'adolescente che aveva soltanto me per sfogarsi. Alla fine litigavo anche col sognatore di stelle. A dire il vero litigavamo anche prima e sempre per lo stesso motivo: l'assenza. Estranea al suo mondo, non capivo e non potevo capire, le lotte, le pressioni a cui era sottoposto e gli enormi sensi di colpa. Uomo di pochissime parole non rispondeva e io chiusa dall'altra parte della barricata, non ho capito finché non mi si è improvvisamente schiarita la vista.
Ricatti più o meno sottili a cui veniva sottoposto per poter far carriera, la competizione  altissima lo schiacciava e lo faceva correre, spintonato dal grande senso del dovere e di responsabilità. L'ambiente, saturo di sotterfugi maligni, di chiacchiere, da parte di chi sgambettando passava sopra il cadavere di chiunque, pur di arrivare dove voleva. Ricomincia, semmai fosse stata accantonata, la corsa dietro la carota da inseguire. Questa volta, per un posto da professore associato. Obbligato a fare domanda, per una serie di motivi politici e burocratici, tutti interni e che non spiegherò, la presenta con una grande aspettativa, gli hanno assicurato un appoggio, dopo tanto lavoro e dedizione. 
E arriva la bastonata, il posto l'hanno vinto altri. Segue un periodo di depressione. L'ha presa sul personale, si sente di aver fallito, di non essere sufficientemente bravo ma il problema è la sua estrema onestà, è il non volere i compromessi. Io comincio a capire piano, piano, quanto anche per lui sia stata dura, durissima la sua scelta di vita.
Le troverete mai le onde gravitazionali? Ogni tanto gliel'ho chiesto ma ormai era diventato uno scherzo tra noi, per riderci sopra. Sarebbe bello, troppo bello ma dubito ormai che si troveranno in questo secolo. Ormai non c'era più nulla da fare con il vecchio gruppo di lavoro, dove tutti litigavano e sorpassato come metodo di ricerca.  Entrò nel gruppo “Virgo”, il nome della costellazione che stavano studiando. Un gruppo grande, di cui facevano parte alcuni stati europei, che progettava la costruzione di un'antenna g., nella piana di Cascina, quella della famosa battaglia di rinascimentale memoria.
Anni e anni di duro lavoro,  di riunioni fiume, di “Virgo week”, le settimane intensive di progettazione, discutendo e a volte litigando animatamente con francesi, olandesi, tedeschi. Sembra che gli improperi più  coloriti e gettonati, siano in italiano. Anni di costruzione, dove ho imparato cosa sono gli “specchi”, dove passa la luce del laser, lungo un tragitto di qualche chilometro, dentro tunnel lunghissimi. Anni di elaborazione dei dati e nessun riscontro. Professore associato è riuscito a diventarlo, ha avuto a che fare con enormi tagli alla ricerca. La lotta per accaparrarsi le briciole, era all'ultimo sangue e chi moriva, il responsabile dell'esperimento in perdita, fatto chiudere, andava a leccarsi le ferite a volte  portando rancore, perché  nel frattempo, per un po' di anni, ha fatto parte della commissione che quelle briciole doveva distribuirle. Partenze per Cascina e partenze per le riunioni della Commissione, in ogni città d'Italia. Ormai ci avevo fatto il callo alle assenze. Ci ho fatto il callo, perché è ancora così.
L'ho visto dannarsi l'anima per preparare neo laureati e insegnare loro, quello che lui aveva fatto per anni e li ha visti andare via, volati verso altri paesi e ricominciare innumerevoli volte, tutto da capo.
Inimicarsi alte sfere per far avere un posto da ricercatore a quarantenni senza stipendio che stavano dando l'anima da anni sul progetto, a dispetto della sua carriera che si è fermata. 
Le troverete mai le onde gravitazionali? Un sogno prima della pensione, mi rispondeva sempre.
Ora le hanno trovate, in una strana coincidenza, tra i cento anni dalle ipotesi di Einstein e gli anni che gli mancano alla pensione.  La battaglia continua e il cammino è ancora lunghissimo, i capelli ci si sono imbiancati, il figlio è andato per conto suo e io ho scoperto la scrittura in compagnia del gatto.

Per chi volesse approfondire e farsi due risate: I fisici e alcuni versi scritti da me in maniera poetica sulla sua ricerca pescatore di stelle

1 commento:

  1. Naturalmente il senso della vita è diverso per ognuno di noi, ma avere la costanza di perseguirlo per "tutta la vita" e riuscire a raggiungerlo penso sia una soddisfazione impagabile.

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