Gloucester Beach - Edward Hopper |
Era notte, senza stelle e buia. La gente dormiva ammassata sulla corriera e fuori pioveva. Le gocce d'acqua picchiettavano i vetri con un rumore sordo, brillavano alla luce dei fari delle poche macchine che venivano dalla corsia opposta.
L'odore di fiati pesanti e di umidità si addensava in alto, come una nebbia invisibile. Erano ore che viaggiavano, fuori faceva freddo ma dentro non si respirava quasi.
Una donna bionda, con le trecce avvolte attorno alla testa, alla maniera dell'Europa orientale, teneva stretta tra le mani una borsetta nera, ai piedi una piccola valigia, tutto quello che si era portata dietro. Si strinse nello scialle di lana per proteggersi, come in un bozzolo, negli occhi una bianca casa che d'inverno spariva nella neve. Ne aveva una foto nella borsa, la tirò fuori. Sulla soglia un uomo giovane teneva per mano un bambino che si reggeva a stento su due gambe cicciotelle, sorridevano. Doveva essere quasi estate, sulle finestre spiccava il rosso dei gerani appena piantati.
La donna si commosse e si asciugò una lacrima.
La corriera attraversò Stati, città e piccoli borghi, chi scendeva pieno di pacchi, chi saliva scevro di ogni bene e ricco di pensieri.
Alla fine anche la donna bionda scese, nell'aria un odore che non aveva mai sentito. Era l'odore del mare mosso, del sale che sciolto in minuscole gocce galleggiava nell'aria, del pesce appena pescato, di quello andato a male.
Una brezza leggera muoveva le bandierine delle barche, facendole tintinnare, dondolavano indolenti cullate dalle onde impigrite.
Il sole si stava ritirando con ritegno, quasi si vergognasse di aver arroventato la terra per tutto il giorno.
Gli ultimi bagnanti raccoglievano dalla spiaggia le loro cose, si toglievano la sabbia di dosso, mentre gli ombrelloni venivano chiusi. Domani, tutto sarebbe ricominciato da capo, la gente che si arrostiva al sole, i gabbiani che banchettavano sul molo, i giovanotti che venivano dalla città apposta per guardarsi intorno, in cerca di avventure d'amore.
La donna bionda aveva tra le mani un biglietto stropicciato con un indirizzo ma non sapeva orientarsi, non era mai stata lì. Chiese ad un passante e le fu indicata la direzione.
Domani avrebbe cominciato il nuovo lavoro, doveva servire caffè e bevande al bar sul molo, non conosceva una parola di quella lingua per lei incomprensibile.
Il telefono aveva squillato tutto il pomeriggio di sabato. Erano Beppe, Luciano, Renato che non si decidevano a mettersi d'accordo per domani, saremmo andati al mare.
- Andiamo in spiaggia comunale - aveva detto il Beppe - ché io non ho una lira.
Alla fine partimmo che il sole era già in alto a guardarci, in tasca soltanto mille lire.
_ Che si fa? - Disse Luciano, che già scalpitava per andare in spiaggia a guardare le ragazze in costume da bagno.
_ L'avete portato l'ombrellone? - Chiese Renato che si scottava ogni volta che prendeva un raggio di sole, dopo assomigliava ad un gambero arrostito.
- No! - rispondemmo all'unisono mentre gli ridevamo dietro.
Corremmo tutti verso l'acqua e ci buttammo in mare per rinfrescarci ma anche per dare fastidio alla brunetta con la sua amica che chiacchieravano fitto, fitto, sedute sulla battigia. Uno spruzzo alto d'acqua le investì, attirando la loro attenzione su di noi. Le feci un ciao con la mano, saltarono in piedi imprecandoci contro. Ci scappò da ridere, era davvero una bella giornata.
Renato, dopo essersi cotto da entrambi i lati, cosparso di ambra solare che gli aveva appiccicato addosso la sabbia, alla fine sbottò:
- Andiamo al bar a giocare al biliardino, due giri, duecento lire, ci mettiamo cinquanta lire a testa, va bene? - Oltre che rosolato era anche il solito tirchio ma almeno non scroccava, come invece faceva Beppe, con la scusa di non avere spiccioli disponibili.
- E muovetevi – li spronai io, dando a Renato una pacca sulla spalla e facendolo sussultare per la scottatura.
Correvamo sulla sabbia arroventata, spargendola come pepe sugli arrosti stesi a terra, le imprecazioni non fecero in tempo a raggiungerci.
- Mia! - Disse Renato, dopo assersi accaparrato una delle due sedie rimaste all'unico tavolo libero.
In seguito alla lotta scatenatasi per chi si sarebbe dovuto sedere sull'altra, mi sono beccato una gomitata nello stomaco. Quattro signore sedute accanto parlano a voce alta e poi scoppiano a ridere, mi cadono sulla testa quelle risate.
- Signorina... - Chiamo la ragazza che serve ai tavoli, ma non si gira. La vedo passare e alzo una mano.
Si avvicina circospetta, a ben guardarla non è giovane come sembrerebbe e ha una strana pettinatura, sembra una matrioska russa.
- Un'aranciata e due spume – Chiedo ma lei sorride e non si muove.
- Hanno assunto una che non capisce una parola – Ridacchia Beppe. Lo fulmino con lo sguardo.
Mi fa pena quella donna, non so perché, la guardo negli occhi e vedo la notte di una vita passata a guardare le stelle lontane dal mare, una vita vissuta a pensare. Occhi tristi, spalancati nello sforzo di comprendere parole che non capisce. Nella profondità del suo sguardo, un'enorme tristezza. Le sorrido, abbassa gli occhi.
Vedo in quegli occhi, quelli di mia madre, di una madonna.
Sei rimasta sola, chiusa nelle ombre di un sogno o di una fotografia con i geranei sul balcone.
Era una giornata da passare a ridere, a dire balle, a parlare di donne, a fare gli scemi.
Non lo è più.
* Divagazione su testo di Paolo Conte
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