A te navigante...

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sabato 28 marzo 2020

Tastierista di fotocomposizione


Un punzone (a sinistra) e la matrice da lui prodotta (a destra).

Gli occhi scorrevano sulle parole, le dita battevano le lettere, ad una, ad una, così velocemente che qualche lettera restava impigliata nel tasto. Sullo schermo nero, il testo, le frasi, la punteggiatura, si formavano brillando di un verde elettrico. Un leggio sulla destra conteneva un pacchetto di fogli sovrapposti, dattiloscritti, segnati da indicazioni in rosso. Garamond, corpo 10, interlinea 11. I titoli in neretto, le parole particolari in corsivo e via. Tic, Tic, a 3 o 400 battute al minuto, una passeggiata. Era un po' tornare indietro nel tempo, il ricordo delle lezioni di dattilografia impresse nella memoria. I tasti di riferimento, per la tastiera cieca, asdf, mano sinistra, jklm, mano destra. E via a ripetere all'infinito: affama la massa, la mamma fa la salsa, tutte parole che contenevano quelle lettere, senza spostare le dita. Dettati con il cronometro in mano, quando c'erano ancora le vecchie macchine meccaniche e più avanti quelle elettriche, e il ticchettare sui tasti era un rumore stordente. Quel tempo era passato. Il ticchettìo sordo era un sottofondo, ora, mentre gli occhi correvano velocemente sulle parole, si chiacchierava del più e del meno, del tempo, quello sempre, delle proprie famiglie, dei figli, di episodi di vita privata. Come in ogni raggruppamento umano si creavano amicizie, simpatie, antipatie, invidie e maldicenze e qualche timido corteggiamento. La mattina si accendeva lo schermo, ci si rodava le mani, nel senso che se erano gelate, le sgranchivamo e poi via a battere velocemente, pagine e pagine di testo. Nel 1981 sono stata assunta in una fotocomposizione gestita da vari soci. Oggi è una casa editrice di media importanza nel campo dell'editoria, ma allora era una fotocomposizione alle prime armi. Cosa era una fotocomposizione? Ho imparato a memoria la spiegazione, allora nessuno la conosceva, un lavoro avveniristico per quell'epoca, ora archeologico e scomparso. Per spiegarlo devo fare un piccolo preambolo sulla stampa. In passato per preparare una pagina da stampare, si allineavano caratteri di stampa ognuno su un piombo, diciamo tipo timbro, per chi non sa nulla al riguardo. Tutte le lettere venivano allineate fino a formare la pagina da mandare in stampa. Il procedimento è vario ma io mi fermo qui. Ci voleva pazienza e vista buona, abilità manuale per preparare la pagina velocemente, come per i quotidiani ad esempio. In tempi un poco più recenti fu inventata una macchina, la linotype, che attraverso una tastiera sollevava i piombi e li posizionava nello stampo. Alleggerì di molto la velocità di composizione, si batteva quasi come su una macchina da scrivere. La tecnologia però andò ulteriormente avanti, prima dell'avvento dei personal computer, la fotocomposizione fu lo strumento tecnologico che permise di superare la stampa con i piombi. Si scriveva su un rudimentale computer, ricordate gli schermi neri con le lettere fosforescenti verdi? Nei primi anni ottanta erano così, starci ore davanti ti rovinava la vista. Invece di scegliere la grandezza del piombo, in base al carattere del testo, si mettevano codici di programmazione, le prime rudimentali programmazioni di stampa, un codice diverso per la grandezza del carattere, (corpo in termine tecnico), l'interlinea, il tipo di stile, ad esempio Garamond, Times, corsivo, neretto. Ora con word è una passeggiata, allora veniva fuori uno schermo di codici con le parole mescolate in mezzo, all'inizio non ci capivo nulla. Non esistevano scuole per imparare il mestiere, l'ho fatto sul campo con l'aiuto di un collega esperto, di una pazienza certosina, l'avrò tempestato centinaia di volte con domande, le mie insicurezze erano al culmine, lui non si è mai spazientito. Gli sono ancora riconoscente per essere stato il mio maestro e avermi insegnato le regole tipografiche e tantissime altre cose, perché io ho dovuto imparare anche le regole di tipografia assieme alla programmazione tipografica. Certo ero giovane, ma è stato molto difficile partire da zero e dover comunque assicurare una produzione di lavoro. La fotocomposizione era in un locale di palazzo Berardi in via del Gesù. Nel cortile uno degli orologi ad acqua, gemello di quello di villa Borghese, scandiva il tempo attraverso il gorgogliare delle cascatelle della fontana. Ogni tanto uscivamo per andare al bar, le pause caffè erano il nostro sgrancirci le gambe e riposare le dita. I baristi alla fine della via, era ormai amici di tutti noi. Il solito per favore, la frase ricorrente, come nei film. Così tra cappuccini, cornetti, pizzette riscaldate e spremute d'arancia, sono lievitata di dieci chili, per giunta seduta otto ore al giorno. Si pagava a turno, si usciva a gruppetti di due o tre. In fondo alla fine eravamo in pochi. Sono stati anni spensierati a ripensarci ora. Tutti giovani più o meno della stessa età, qualcuno un po' più grande. Tutti della stessa generazione, avevamo interessi in comune e idee politiche uguali. Si parlava di tutto, perché ormai occhi e mani andavano da sole, oppure si ascoltava la radio, io ero una patita di radio Subasio. D'estate col ventilatore direzionato adosso, faceva molto caldo nel locale, d'inverno, coi mezzi guanti, le mani congelavano. Venivano i clienti che portavano le correzioni d'apportare, segnate in rosso, anche qui ci sono regole specifiche da seguire, ma spesso non le seguivano e venivano le dolenti note: l'interpretazione dei segni mal tracciati e fantasiosi. -Mario, che significa? - Una delle mie tante richieste al collega che mi avevano affiancato. Lui, paziente a decifrare, nonostante avesse il suo di lavoro da svolgere. Mario aveva lavorato in una tipografia fin da giovanissimo. Aveva imparato il mestiere, sapeva usare i caratteri di piombo e mi spiegava i concetti con analogie, facendomi immaginare le cose in modo materiale. Le lettere hanno “la spalla” lo spazio bianco intorno, sono come cubi su cui è impressa la lettera, lo stesso concetto lo trovi qui, la devi calcolare. Aveva il suo bel da fare con me. Mi raccontava spesso di suo figlio, allora seienne, che poi conobbi assieme alla moglie. Noi due lavoravamo in un turno di sei ore, alternandoci ogni due settimane, tra mattina e pomeriggio. L'altro turno era composto da Sasà, napoletana verace, e Maurizio anche lui partenopeo, meno espansivo e più introverso di lei, grandi amici, erano stati assunti insieme. Di lui ricordo i capelli lunghi ricci e i baffoni spioventi. Li vedevo solo al cambio turno. Poi c'erano i “capi”, i soci. Uno in particolare, Paolo, il nipote del socio di maggioranza, detto da noi 51%, nostro coetaneo, ma tenuto a distanza per via del ruolo, a volte ne soffriva, perché emarginato anche dai soci, più anziani di una decina d'anni, lo ritenevano tutti il cocco dello zio. Per lui deve essere stato un ruolo difficile. Nel tempo furono assunte altre persone e l'iniziale atmosfera amichevole, mutò. Sparirono i turni e si passò alle otto ore con pausa pranzo. D'estate si consumava velocemente un panino e poi a prendere il sole al Pantheon, a chiacchierare con Sasà, a fare due passi. Pian, piano cambiò anche un po' il lavoro, e io da tastierista passai ad impaginare riviste e libri. Altre regole da imparare, ad esempio: mai iniziare una pagina con una riga vedova. Una frase breve due o tre parole che chiudono un periodo, iniziato alla pagina precedente. Esteticamente è un pugno in un occhio. Ho sempre amato leggere, fin da bambina e lì ho avuto occasione di spaziare tra materie diverse, leggere libri per lavoro, per una lettrice come me, è stato molto piacevole. Un giorno mentre seguivo il testo da battere, fui presa dal contenuto, si parlava di una malattia misteriosa, nuova, che causava sintomi particolari, come il sarcoma di Kaposi e una sindrome da immonodeficienza di cui non conoscevano nulla, l'AIDS, divenuta tristemente nota negli anni a venire. A volte toccava scrivere testi in lingue straniere, passi per l'inglese che avevo studiato a scuola, il difficile era battere i testi in tedesco, si cercava di scrivere velocemente lettera, per lettera, senza capirci un accidente e al ritorno delle correzioni, erano dolori. Ci ho lavorato per sette anni, poi la vita è andata avanti e io per la mia strada, di moglie e madre. La prima a cui ho annunciato di aspettare un figlio è stata Sasà, un giorno di giugno, seduta sotto la fontana davanti al Pantheon. Di lì a poco sarebbe cambiata tutta la mia vita, e quella manciata d'anni che allora mi sembrava lunga, divenne sempre più un lontano ricordo a cui ogni tanto ripenso con un po' di rimpianto, più che altro per la gioventù perduta. Quando ci sei dentro non pensi mai a quanto effimera e preziosa sia, te ne accorgi quando l'hai persa.

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