E viene il giorno. Il sole riscalda appena la terra bagnata di rugiada. Una sottile nebbiolina si stiracchia sull'erba e sulle cime degli alberi. Una gocciolina d'acqua brilla, illuminandosi in un sorriso, prima di evaporare.
Da millenni il giorno della raccolta delle olive è un rito, un lavoro duro, che odora di aspro e di sudore. Col passare dei secoli la tecnologia è venuta un poco in aiuto ma gli odori, i gesti sono gli stessi.
La pianta, carica delle drupe succose e lucide, piega i rami, quasi volesse porgerti quel fardello che essa non vuole più portare.
Si inizia al sorgere del sole. Le reti vengono gettate per una pesca miracolosa, dal frutto uscirà fuori oro liquido.
Si spargono le reti, si tirano come un immenso lenzuolo da stendere sul giaciglio erboso, sotto l'albero. Le dita passano tra i rami, pettinandone la chioma, e pian piano, con un piccolo rumore sordo le gocce nere invadono il suolo. Con le macchine elettriche, che aiutano il lavoro umano, si cerca di velocizzare, ma le spalle vibrano al peso della macchina, il lungo braccio si allunga verso i rami alti, non servono più le antiche scale di legno, i tascapane da riempire a manciate, le vesciche sulle dita delle mani nude che scorrevano tra ramo e ramo, si formavano per usura. Finalmente, al suolo cade una grandine di chicchi neri. Te li ritrovi negli stivali, nelle tasche, i capelli intrecciati a foglie argentee. La pianta tira un sospiro di sollievo, si stiracchia, finalmente libera dalla zavorra. É ora di ritirare la rete. Si alza da terra, lentamente, dai bordi, si guidano le drupe come soldati in battaglia, tutte raggruppate insieme. Sono pesanti, non ci si aspetterebbe di averne così tante, erano tutte sparse qua e là, come puntini su una mappa. Il vento porta l'odore aspro, mediterraneo, nell'aria. Un profumo antico di lampade dalla flebile e tremolante luce, di balsami per le matrone romane, di manicaretti cucinati con amore, di calorie contate con riluttanza.
La pesca è stata abbondante, due braccia non bastano per alzare la zavorra, ci si fa vicini, ci si danno istruzioni reciproche, un poco a destra, un poco a sinistra e via. Il rumore risuona sordo, le olive cadono nella cassetta, la prima di una lunga serie, soddisfazione di un lavoro ben fatto.
Si raduna la rete, la si trascina di nuovo e via, con un altra pianta, ancora e ancora, fino all'imbrunire, quando l'uomo e il sole, ormai stanchi, hanno bisogno di riposo.
Dopo tanto lavoro, a volte di giorni, finalmente si va alla macinatura. Nel frantoio è un via vai di persone, di enormi casse, dove ognuno raduna le proprie olive e aspetta pazientemente che tocchi a lui.
Si pesano, si rovesciano nella vasca che le lava e lascia a galla le foglie residue.
Il rumore assordante della mola riempie le orecchie, nell'aria un odore aspro e pungente, piccante oserei dire. La macchina tritura e spreme: è giunta l'ora. Un flusso di liquido color oro, fosforescente, riempe il recipiente, un tempo le giare in terracotta, ora domina il freddo e sterile acciaio.
Goccia, a goccia scende un filo sottile; esso lega presente, passato e futuro. L'emozione sale, è come essere collegati alla madre terra che ti ha voluto fare un regalo, perché a volte è avara e non sempre elargisce. Se si adombra, per il male che le facciamo, ci nega inesorabilmente i suoi frutti, come madre severa. Noi, come figli disobbedienti, puntiamo i piedi, lei si adira con noi sempre più spesso.
È notte fonda, i grilli sono stanchi di frinire, la luna pallidamente occhieggia, illuminando timidamente la strada del ritorno. Anche quest'anno abbiamo l'olio buono e niente ripaga la grande fatica più che assaporarne lentamente l'aroma pungente e piccante, un poco amaro, su un piatto di spaghetti fumanti: il grano e l'oliva i doni del Mediterraneo.
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