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venerdì 3 maggio 2024

La casa nei ricordi

La prima casa in cui Franco e Ivana, i miei genitori, andarono a vivere fu l’appartamento in cui mio padre era nato e vi viveva con suo padre, Riccardo. Sua madre era morta qualche anno prima. Di comune accordo, i miei, decisero di coabitare con Riccardo, per non lasciarlo solo. La convivenza non fu facile. Ivana non aveva previsto le incomprensioni future. Aveva immaginato Riccardo come suo padre Armando, una persona che si faceva i fatti propri e non s’immischiava mai nella vita dei figli. Riccardo aveva un carattere molto forte, spesso invadente, nella sua educazione ottocentesca, nato nel 1894, il capofamiglia doveva decidere e controllare la vita dei congiunti. Per Ivana fu molto difficile, specialmente dopo la nascita dei figli. Le discussioni erano all’ordine del giorno, tra lei e il suocero, tra Franco e suo padre. Mio padre si trovò al centro di una guerra, da una parte, in cuor suo, sapeva che sua moglie aveva ragione, ma voleva anche bene a Riccardo. A volte taceva, a volte, dopo aver accumulato rancore contro suo padre, lo attaccava, scoppiava la lite. Noi ragazzini non capivamo, stavamo in mezzo a quelle battaglie senza saperne il perché. Riccardo era un nonno che amava molto i suoi nipoti, gli unici, perché mio padre era figlio unico. Noi ricambiavamo il suo affetto, lo amavamo incondizionatamente. Se tra gli adulti non c’era pace, con noi era sempre molto indulgente. Ci regalava qualche giocattolo, giocava con noi, per i primi anni delle elementari mi accompagnava e mi veniva a riprendere a scuola. A volte copriva qualche mia intraprendenza, come la volta che a sette anni tornai a casa da sola, perché mia madre aveva tardato ad arrivare, aspettò con me che rientrasse, sul balcone del salone, affinché già dalla strada potesse vedere che ero incolume e non mi aggredisse nel trovarmi già a casa. Tra loro adulti, però, non si riusciva a trovare accordo. Dopo undici anni, la misura fu colma. I soldi, faticosamente messi da parte, bastarono per acquistare una casa propria e trasferire la famiglia. Fu Ivana a prendere l’iniziativa, Franco temporeggiava, temeva di lasciare suo padre e che i soldi non fossero ancora sufficienti. Ivana cominciò a guardarsi intorno. A metà anni sessanta, i cantieri nel quartiere proliferavano, ne visitò parecchi. Era nato da poco il terzo figlio e si cominciava anche a stare stretti in quella casa, in uno dei vecchi lotti della Garbatella. Durante la guerra, una bomba era caduta su un terreno senza costruzioni, lasciando una buca enorme con un vasto prato incolto. In quel periodo la recintarono, con assi di legno, come era uso in quel tempo, per coprire il cantiere alla vista dei curiosi. Ivana cominciò a sbirciare tra le assi le scavatrici all’opera, scavano per le future fondamenta di un nuovo palazzo. Il palazzo sarebbe sorto proprio accanto al lotto dove ancora vivevano i suoi genitori. Passando, Ivana si chiedeva chi avrebbe abitato lì. Quando i lavori finirono, dopo circa due anni, andò a visitare i vari appartamenti e ci porto Franco, è lì che aveva deciso di vivere. Acquistarono uno degli appartamenti più grandi, centodieci metri quadri, al sesto piano con una vista mozzafiato sulla vecchia Garbatella. Dovettero fare un mutuo ventennale e qualcosa prestò loro Riccardo. Ricordo poco di quel periodo, avevo soltanto sei anni, ma la famiglia era in fermento, per il trasloco e la nuova vita che sarebbe cominciata. Nella vecchia casa dormivamo tutti nella stanza dei miei, l’altra era di mio nonno Riccardo. Nella nuova avevamo una stanza, grande, tutta per noi. I letti a castello, di ferro battuta verniciati di rosso, furono divisi in letti singoli, per me e mia sorella. Mio fratello dormiva ancora con i miei, poi il suo lettino fu spostato in mezzo ai nostri, per non farlo cadere di notte. Ricordo con quanto entusiasmo mio padre, dipinse le pareti della camera, scegliendo i colori su alcuni esempi trovati nell’enciclopedia della donna, allora molto di moda. Due pareti, le più lunghe color salmone, le corte in giallo canarino, la porta blu. A pensarci ora mi sembrano accostamenti azzardati, ma a noi piaceva molto. Lì giocavamo a fare i cantanti, imitando quelli che sentivamo in tv. Inventavamo giochi, ci nascondevamo per casa. Nella nostra camera, mia sorella, costretta a letto per le tonsille infette che avrebbe dovuto togliere di lì a breve, mi ascoltava leggere Pinocchio, insieme al più piccolo, a bocca aperta, ero in quinta elementare e l’unica che sapeva leggere tra loro. Il lungo salone, di sette metri per quattro, fu arredato con mobili nuovi, in uno stile ispirato al barocco, di cui non ricordo il nome preciso, di palissandro lucido. Un tavolo ovale con una lastra di alabastro a lato della cristalliera. Divideva il lungo salone il salotto di velluto in lino, color cognac. L’ampio ingresso fu arredato in stile impero, l’attaccapanni di raso bordò, come le due sedie in ottone ai lati della consolle di marmo alabastro. Completavano il tutto due lampadari a goccia di cristallo, molto di moda allora che io ho sempre odiato. Dei mobili in loro possesso, fu traslocata soltanto la camera matrimoniale. La casa aveva due bagni, uno padronale e uno di servizio, lungo e stretto, destinato a noi ragazzini. Mio nonno veniva tutte le mattine e andava a casa sua la sera. Gli avevano acquistato una comoda poltrona posizionata al salone, dove c’era la tv. Lì, lui si riposava, leggeva i giornali e giocava con noi nipoti. Ricordo, con molta nostalgia, che mi piaceva rubargli la pagina dei fumetti, del quotidiano che amava leggere. Lo ripiegava con cura e io glielo stropicciavo sempre, si arrabbiava, ma poi, gli veniva da ridere. Vivevamo in spazi larghi, ma le liti, purtroppo, continuavano. Mia madre si sfogava con me di mio nonno e lui di lei. Io soffrivo perché volevo bene a tutti e due. Sono stata molto legata a mia nonno, ricordo con quanto affetto ci organizzava i compleanni, la zuppa inglese che era il dolce del compleanno. La domenica portava le paste, di tutti i gusti, era una festa. A Natale, dopo le immancabili letterine a nostro padre, giocavamo tutti a tombola, perché lo voleva lui e noi nipoti a litigarci il tabellone. Sono stati i migliori Natali della mia infanzia. Sei anni dopo il trasloco, lui ci ha lasciati per sempre, avevo 12 anni. È morto il giorno di Natale e i Natali non sono più stati una grande festa, per parecchio tempo. La cosa che mi colpì tanto, dopo la sua morte, fu di vedere le impronte delle sue dita sulle cornici d’argento in cui teneva le nostre foto. Gli erano sopravvissute. Quelle cornici sono state moltissimi anni nella casa dei miei, con foto diverse. Ora le ho prese io in eredità, continuano a farmi ricordare di lui. Mi rammento di mia madre, che era sempre intenta a pulire, levava le nostre impronte dai muri, con la spugna insaponata. Tre figli erano un bel lavoro. Qualche volta, giocavamo, ognuno sul suo balcone, dalla parte del cortile, con il figlio della vicina di sotto, Mauro, dell’età di mia sorella. Sembravamo un po’ delle bestioline in gabbia. A volte venivano i figli della dirimpettaia, più o meno dell’età di mio fratello e giocavano a soldatini con lui. Li mettevano tutti in fila e poi simulavano il rumore degli spari, buttandoli giù ad uno, ad uno. Con gli anni le esigenze della casa cambiarono. Noi crescevamo e la nostra camera fu completamente rivoluzionata. Fu acquistato un mobile libreria, a parete, con due letti a scomparsa, per me e mia sorella. Al centro della stanza un tavolo tondo, al salone non abbiamo mai mangiato. Nelle occasioni, mangiavamo su un tavolo ripiegabile, tondo, in mezzo al grande ingresso, oppure visti gli orari scaglionati di tutti, in cucina. La sera il tavolo veniva spostato all’angolo della stanza e i letti tirati giù. Diventati grandi, era ormai necessario avere una stanza da pranzo agevole e vicina alla cucina. A mio fratello fu acquistato un lungo mobile con letto a scomparsa e mandato a dormire in salone. Maschio e femmine non dovevano dormire insieme. Con mia sorella fu sempre una lotta la condivisione. Io voleva leggere prima di dormire, a lei dava fastidio la luce non siamo mai state d’accordo su qualcosa. Rivedo mio padre, la mattina del mio matrimonio che aveva perso il bottone del polsino della camicia. Nervoso, come lo era sempre, chiamava mia madre per farselo riattaccare, si concentrava sui particolari, per non pensare che la sua prima figlia avrebbe lasciato il nido. Io alle prese con il fotografo che scattava foto in salone, ero in panico, perché non arrivava il bouquet da sposa. Sono uscita da quella casa al braccio di mio padre. Cucinare in quella piccola cucina è sempre stato difficile, due persone si scontravano irrimediabilmente. Quando mio padre è andato in pensione, è stato il suo regno, lui amava cucinare, ha estromesso mia madre. Se ripenso a quella cucina, vengono a galla ricordi mescolati, di vari periodi. Lì, mio fratello, di un anno, andava a rovistare nella pattumiera, mia madre fu costretta a metterla in alto, sul muretto del balcone della cucina, per non farcelo arrivare. A volte, mezzo addormentato, sempre più o meno di quell’età, la scambiava per il vasetto e ci faceva pipì. Rivedo mio nonno seduto in quella cucina che rideva a crepapelle raccontando gli scherzi fatti in gioventù ai colleghi di lavoro. Lo chiamavamo nonno Bomba per quei suoi scoppi di risa. Rammento le discussioni tra mio padre e mia madre, discutevano sempre, su tutto, in quel Natale si concentrarono su come andavano preparati i cannelloni, per noi, diventati ospiti dopo i matrimoni. In un salto temporale all’indietro mia madre, agitatissima che prepara la cena fredda per la mia cresima, una delle poche volte che abbiamo avuto i parenti e mangiato in salone. Sento risuonare la forte voce di mio padre, quando cantava l’inno nazionale per addormentare mio figlio, cullandolo in braccio. Anche lui ci ha lasciati da tanto tempo. Ivana è rimasta per vent’anni sola, in quella casa, troppo grande per una persona, ma lì aveva tutta la sua vita. La rivedo incurvarsi, invecchiare rapidamente, prima sul bastone, poi con il rollator, curare le sue piante, innaffiarle e lamentarsi che mancavano di concime, che avevano le cocciniglie o gli afidi, mi faceva comprare i prodotti appositi ma poi non sapeva come diluirli. Le ore passate con lei, negli ultimi anni, sedute a quel tavolo tondo, nella stanza che un tempo era la nostra, che poi è diventata quella in cui ci riunivamo tutti, con i nipoti, nelle occasioni. Noi siamo invecchiati, i nipoti sono uomini e anche lei ha intrapreso il lungo viaggio. La casa è stata messa in vendita, il cuore mi batte ogni volta che entro lì. Rivivo tutti i ricordi. Rivedo loro sorridenti e felici, giovani, come erano all’inizio. Li rivedo nella malattia e nella morte. Mi mancano tutti, il nonno e i miei genitori. Non sarà facile lasciar andare quella casa. Vederla svuotare, per me come gettare via anni della vita di tutti. Vedere estranei vivere lì, dove abbiamo vissuto soltanto noi, mi fa stare malissimo. Per questo ho deciso di scrivere queste righe affinché la casa, ma soprattutto chi ci viveva, restino sempre dentro di me. Spero che un giorno, quando non ci sarò più, chi leggerà queste righe, possa passare i ricordi a nuove generazioni.

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