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sabato 21 dicembre 2019

L'undici febbraio 1986





Quel martedì 11 febbraio 1986, era un giorno esattamente come gli altri, almeno lo pensai, quando alle ore 5,55, come tutte le mattine la sveglia suonò. Le tre cifre rosse illuminavano la stanza buia, uguali, palindrome. 
Uno sbadiglio e trascinando assonnata le pantofole,  andai in cucina. Gesti uguali, quotidiani, minuti scanditi da azioni cronometrate. Faceva freddo in casa, ancora non avevano acceso il riscaldamento, mi sembrava più freddo del solito.
Vestita come un palombaro, col montone che andava di moda in quegli anni, acquistato qualche mese prima per ripararmi meglio dal freddo, uscii chiudendo piano la porta di casa, per non svegliare il marito che sarebbe uscito molto più tardi. Il mio lavoro iniziava alle sette, avevo quaranta minuti per arrivare a Piazza del Gesù.
Ancora assonnata, tra uno sbadiglio e un guardare l'orologio, uscendo dall'androne, misi un piede sul marciapiede e giù, a gambe all'aria, era tutto ricoperto di neve. Nella notte aveva nevicato abbondantemente e per la gente, che si sarebbe svegliata più tardi, sarebbe stata festa.
Mentre aspettavo la metropolitana, vedevo i fiocchi bianchi venire giù a manciate.  Candidi coriandoli sullo sfondo nero del cielo, prima dell'alba. Faceva davvero freddo. Il respiro si condensava in nuvolette di nebbia.
Sul convoglio, quasi vuoto, la gente assonnata,  presa dal quotidiano, ignorava l'evento. Ci guardavamo furtivamente gli uni con gli altri, cercando un punto fisso dove dirigere lo sguardo, in attesa della fermata. Niente cellullari da fissare, o conversazioni con il nulla davanti,  in quel tempo
avrebbero fatto sembrare tutti pazzi. 
Scesa alla fermata Colosseo, dove tutte le mattine aspettavo l'autobus, mi ritrovai in un silenzio irreale. Via dei Fori imperiali completamente bianca, qualche raro segno di pneumatico che andava scomparendo rapidamente, ricoperto dalla coltre ghiacciata.
L'autobus non passò. Camminavo in quel paesaggio spettrale, affascinante, con l'ombrello aperto, e i fiocchi posandosi sopra, producevano un lieve rumore sordo, più intenso di una goccia d'acqua.
Non era più la Roma caotica del mattino, non c'era nessuno, le rovine del Palatino, i Mercati Traianei,  spiccavano ancora di più, come illuminati dall'interno. L'altare della Patria era una “macchina da scrivere”  dilavata, lucida, soltanto la fiaccola al Milite Ignoto sembrava spargere un po' di tepore.
Tornaii bambina, indietro nel tempo, a quel lontano 1965, vent'anni prima, quando la scuola non aveva aperto e io ero impazzita a toccare la neve per la prima volta.
Il disagio ci fu, rischiai di cadere, difficile avanzare nella neve fresca, specialmente per una romana, che la neve l'ha vista davvero una volta ogni morte di papa, come diciamo noi.
Alla fine però, arrivai a via del Gesù. In ritardo, ma sperai che fosse giustificato dall'evento eccezionale, ligia al dovere non avevo disertato.
Il posto dove lavoravo era situato in un locale al pianterreno nel cortile di Palazzo Berardi. In mezzo  si può ancora ammirare uno dei due orologi ad acqua di Roma,  idrocronometro il nome esatto, l'altro è a Villa Borghese. Progettati e costruiti  da un frate domenicano,  Giambattista Embriaco, nel 1867 per l'Esposizione Universale. Quel mattino l'acqua, pendeva dal complicato meccanismo in ghiaccioli trasparenti che brillavano alla luce dei lampioni. Una visione davvero particolare. Quell'undici febbraio, tutte le fontane di Roma erano nello stesso stato, con stalattiti di ghiaccio al posto dei festosi getti d'acqua che noi romani siamo abituati ad ammirare. I suoni attuti, il silenzio dell'acqua cristallizzata nello scorrere del tempo. Quasi ci si aspettava di vedere qualche personaggio antico, uscito fuori dagli ingranaggi della storia, un certo Gioacchino Belli, intento a pensare versi, un antico cardinale in pompa magna o un povero popolano tremante e stremato dalla fame. Si poteva immaginare di essere in un'altra dimensione, una Roma uguale ma sconosciuta, dove la neve non si scioglieva mai.
Per me l'incanto finì lì. Il lavoro, la concitazione delle cose da fare, mi fecero dimenticare la neve, finché venne l'ora di tornare a casa. Aveva da poco smesso di nevicare. L'Atac non mandò fuori nessun mezzo, solo la metropolitana funzionava. Dalla meraviglia e dall'incanto del mattino, finii per preoccuparmi del ritorno. Roma, non è una città attrezzata per la neve, ma me la cavai senza un graffio.
Rimane però il ricordo indelebile di quel giorno magico, delle immagini uscite sui giornali, del cupolone imbiancato, della gente in strada, impazzita, che si divertiva a fare a palle di neve.
Queste immagini mi hanno ispirato, anni dopo, Fu a Roma racconto di fantasia.

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