A te navigante...

A te navigante che hai deciso di fermarti in quest'isola, do il benvenuto.
Fermati un poco, sosta sulla risacca e fai tuoi, i colori delle parole.
Qui, dove la vita viene pennellata, puoi tornare quando vuoi e se ti va, lascia un commento.

domenica 16 novembre 2025

il tempo

Il cielo specchiato nell’acqua
si rimira vanitoso,
imbellettato di blu cobalto,
si è cinto di luce, là in alto.
Lei gli parla sussurrando,
timida,
ritrosa,
poi avanza schiumando,
rabbiosa:
l’ha accecata di luce riflessa,
il presuntuoso.
Una linea sottile li divide,
uguali in un istante,
diversi nell’eternità.
Secondi,
secoli immutati
scorrono sui granelli dorati.
La vita, la sua impronta
lasciata sulla sabbia
. Bolle iridescenti,
sotto una luce accecante
l’hanno cancellata.
È morta così
la goccia di vita,
sparita nel tempo passante.

sabato 15 novembre 2025

La bottega di Mastro Bernardino

Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
a fornir l’opra anzi il charir dell’alba

Elaborato sulla strofa de "il sabato del Villaggio" di Giacomo Leopardi

Il cielo è di velluto scuro, puntellato di stelle, ha steso la sua coltre sulle case. Una pallida falce di luna allunga flebili ombre sui vicoli e le strade. Gli umani affanni tacciono e hanno lasciato il posto al frinire dei grilli e al richiamo d’amore di una civetta in primavera. Di notte ancora fa fresco, dai camini escono sbuffi di fumo che inondando l’aria di fuliggine e odore di legna bruciata. Si può scorgere, da lontano, una luce tremolare, esce dalla finestra di una casa, accanto alla chiesa. È la dimora di mastro Bernardino, il falegname. La sua bottega è collegata con una porticina all’alloggio in cui vive, con sua moglie Sperandina, sono soli e anziani. La donna ha preparato una zuppa d’orzo; l’ha cotta nel paiolo, sopra il fuoco sfrigolante del caminetto. Ne versa due porzioni e nella stanza si spande il profumo del cibo. Sperandina s’affaccia alla porta e chiama suo marito per la cena, Bernandino è ancora molto preso dal suo lavoro, deve terminare una madia che gli ha commissionato il parroco. La consegna deve essere fatta prima delle lodi mattutine. L’uomo fa cenno alla moglie e rifiuta, per ora, la cena. Le dice che non ha tempo da perdere, perché è indietro col lavoro, la mangerà più tardi. Alla fine sua moglie mangerà da sola, assaporando con gusto la zuppa bollente che sa di patate e verdure. Sperandina conosce bene suo marito, sa che la cena sarà probabilmente la sua colazione. Torna dentro casa e mette la ciotola accanto alle braci, per tenerla in caldo, poi, si siede e prende il suo ricamo, una tovaglia con fiori e foglie a cui sta lavorando da mesi. Alla fioca luce della lucerna ad olio, le sue mani allungano gugliate di filo in gesti ormai meccanici, mentre la sua mente vaga. Si preoccupa per il troppo tempo che suo marito trascorre lavorando senza soste, ma è anche grata, perché le entrate che ne derivano permettono loro di non soffrire la fame. Dalla bottega giungono i rumori a lei familiari, lo stridore della sega, la pialla che getta a terra riccioli di legno, il martello che pianta chiodi. Bernardino liscia e leviga ogni spigolo, passa la mano sul legno per controllare di aver tolto ogni asperità. Con lo scalpello continua a incidere un disegno sullo sportello della madia: una croce con in mezzo l’Ostia e dei raggi che s’irradiano verso l’esterno, è stato il prete a volerlo così. Il campanile della chiesa ha rintoccato l’una. Sperandina dà la buona notte a Bernardino, il sonno ha vinto la sua battaglia, con gli occhi semichiusi sale le scale che conducono al piano di sopra, dove c’è la stanza da letto. Bernardino continua il suo lavoro, tra uno sbadiglio e l’altro e lo stomaco che brontola. Manca poco all’alba, il campanile rintocca le cinque, tra poco saranno le lodi e lui dovrà essere pronto.

venerdì 11 aprile 2025

Tempesta emotiva

La luce di un sorriso,
caldo come il sole,
amplifica i colori:
è gioia di vita.
Si avvicina, inaspettato
un vento molesto,
non evocato.
Rimesta emozioni,
trasporta pensieri plumbei.
Volano,
ricadono,
si rialzano,
come foglie morte.
Non tace lo sciame ronzante.
Le onde spruzzano alte,
schizzano dolore,
schiumano rabbia,
in un vortice di grida.
Una pioggia di gocce,
salata, amara, e scivolosa
picchietta sulle ferite
A poco, a poco la tempesta si placa.
Restano in terra
brandelli d’anima.

martedì 25 marzo 2025

I Bari

Il quartiere del popolo, dove i mendicanti invadono i vicoli, ladri e povertà dilagano. È sufficiente passare il ponte, per ritrovarsi a Trastevere, in un mondo al di fuori della Roma dei signori e dei cardinali, al confine della città. Fu qui, nel vicolo dei Cinque, che il furbo Giacomo, avanzo di galera, uscito da Castel S. Angelo, dopo aver scontato la sua pena, per furto, s’imbatté in Antonio. Adolescente, vestito di stracci, dall’aspetto macilento, chiedeva l’elemosina ai pochi che potevano permettersi di elargirla. Giacomo aveva trascorso parecchio tempo nelle celle anguste e umide della fortezza. Era uscito, perché era stata la prima volta che l’avevano colto sul fatto. Non era stato, però, il suo primo furto, infrangere la legge ce l’aveva nel sangue. Alto allampanato, aveva certamente sofferto la fame nella vita e in galera. La decisione di spennare gli ingenui, nel gioco delle carte era già presa da tempo. Giacomo aveva escogitato una strategia, ma c’era bisogno di un ragazzo dall’aspetto gentile che fosse suo complice. Il giovanissimo Antonio le aveva provate tutte pur di mangiare, tranne infrangere la legge. Si era offerto per qualsiasi lavoro, ma lì nel quartiere, il lavoro non c’era, riusciva a fare qualche piccolo servizio, ma gli spiccioli guadagnati erano davvero pochi. Suo padre lo picchiava ogni giorno, perché non era capace di aiutare le finanze della famiglia che moriva di fame. Attraversare il ponte, per cercare lavoro nei quartiere benestanti, al di là del Tevere, ci aveva provato, ma il suo aspetto di straccione, si sovrapponeva a quello dei tanti poveracci come lui. La diffidenza nei loro confronti, spesso, li faceva allontanare, al massimo rimediavano un tozzo di pane. Il giorno dell’incontro tra il baro e Antonio, fu uno di quelli in cui il ragazzo non aveva raggranellato neanche pochi spiccioli. Tremava nel dover rientrare a casa, sapeva benissimo cosa lo aspettasse. Giacomo con fare suadente, gli si avvicinò. Antonio alzò lo sguardo verso quel tipo bizzarro, lo guardò con un’espressione interrogativa, si stava chiedendo perché lo stesse fissando da un po’. - Giovane, giornata storta? - Gli chiese, avendo compreso il disagio del ragazzo. Antonio, indietreggiò verso il muro. Temeva di essere aggredito o rapito, non erano rari i casi in cui si cercavano ragazzi per le richieste di ricchi depravati. - Non temere – aggiunse Giacomo - non ti farò del male, voglio soltanto proporti un affare. Antonio drizzò le orecchie alla parola affare. Qualsiasi fosse, magari l’avrebbe tirato fuori dal pantano in cui era. - Ditemi, cosa volete da me? - Andiamo in un luogo tranquillo, vieni ti offro un bicchiere di vino. Antonio seguì quell’uomo, più alto di lui, nell’osteria vicino. - Oste servici due bicchieri del tuo vino – Ordinò Giacomo. L’oste lo guardò diffidente e soggiunse: - Devi pagarmi in anticipo. - Oste malfidato, ecco qui il denaro! Giacomo tirò fuori dalla tasca una sacca di denaro appena borseggiato. - Dunque quale sarebbe questo affare? - Chiese Antonio, curioso di saperne di più. - C’è da guadagnare parecchio. Se accetti, dovrai essere scaltro e seguire le mie istruzioni, ma si può rischiare la galera. - Che dovrei fare? - Chiese Antonio, disposto a tutto pur di avere del denaro da portare a casa. - Devi adescare qualche allocco dall’aria ingenua, insieme lo spenneremo al gioco delle carte, dividendoci il bottino. Io, che sono la mente, prenderò il 70 per cento dell’incasso, il resto è tuo. - Non mi va bene così, sono io che mi espongo e rischio di più. Dopo varie contrattazioni, Antonio riuscì a strappargli un 40 per cento. Ci volle tempo per imparare alla perfezione il gioco di carte, come sostituirle senza farsi cogliere sul fatto. Giacomo anticipò una parte del capitale da investire in abiti decenti per entrambi. Antonio indossava una blusa di seta giallo oro a righe nere dalle cui maniche usciva fuori una camicia verde scuro. In testa un cappello dello stesso colore della blusa, ornato di piuma, secondo la moda del momento. Giacomo invece indossava una blusa arabescata grigio chiaro dalle maniche gialle a righe nere. Anche lui aveva un cappello con piuma, ma dei guanti così logori che facevano intravedere le dita nude. Il giovane Paolo, era a bottega da un pittore molto conosciuto. Gli preparava le tavolozze, le tele e mescolava i colori con elementi naturali, come la biacca, di cui l’artista faceva molto uso. Famose erano le scene da lui ritratte con una luce particolare, che sembrava uscire dall’opera. Era giorno di paga, non veniva pagato molto, perché anche l’artista sebbene famoso, viveva in ristrettezze. Per Paolo comunque erano soldi sicuri. Uscì baldanzoso dalla bottega, era ormai l’imbrunire. I due loschi figuri lo avevano tenuto d’occhio e preso di mira. Era la vittima ideale, Antonio gli si avvicinò baldanzoso. Paolo dimostrava più o meno la stessa età. Antonio cominciò a parlare per primo, l’altro ingenuamente gli rispose, abbassando la guardia perché aveva un viso gentile ed era giovane come lui. Percorso un tratto di strada insieme, Antonio lo diresse con astuzia verso la locanda dove Giacomo stava aspettando. Entrando finse di meravigliarsi della presenza dell’amico, seduto ad un tavolo, che presentò a Paolo. I tre si sedettero insieme. Sul tavolo spiccava una tovaglia damascata rossa e un blackgammon, un gioco da tavolo. - Noi passiamo il tempo a giocare a carte, ti va di unirti? Potresti vincere e raddoppiare i tuoi soldi. Paolo assentì, dopo una giornata pesante di lavoro, si era guadagnato uno svago. Era vestito di scuro, solo un colletto bianco spuntava dalla blusa. Aveva un viso concentrato nel gioco, leggermente arrossato. Guardava le carte senza accorgersi che Giacomo, alle sue spalle, suggeriva ad Antonio il numero della sua carta con le dita. Antonio provava un misto di eccitazione per il rischio, aveva una postura tesa leggermente piegata verso Paolo. Teneva, dietro la schiena, con una mano, le carte da sostituire, così come gli aveva insegnato Giacomo. Aspettava che Paolo facesse la sua mossa. Lo spennarono come un pollo. A fine partita Paolo era disperato, aveva perso tutta la paga. I due si allontanarono alla svelta prima che ci ripensasse, dividendosi il bottino e andando a festeggiare con grosse pacche sulle spalle, in attesa del prossimo pollo da spennare. Tempo dopo, Paolo, raccontò al pittore la sua brutta disavventura. L’artista volle immortalarla a futura memoria, dipingendo la scena come Paolo gliel’aveva descritta. Divenne uno dei più grandi capolavori dell’arte.

giovedì 6 marzo 2025

Lettera ad un amico

Mio carissimo amico, mi permetti di chiamarti mio? Non ti ho mai detto quanto fossi importante per me, per noi. Sempre silenzioso e discreto, stai fermo nel compiere il tuo lavoro. Ci doni tanto, noi non ti ringraziamo abbastanza, ma distruggiamo poco, a poco la tua casa. Caro albero di ulivo, dal tronco secolare, la tua corteccia è segnata dagli anni che hai attraversato. Da migliaia di piccole creature che ti hanno sfiorato e a cui hai offerto casa, cibo. Interminabili file di formiche laboriosamente passano sul tuo tronco, è la scorciatoia per il formicaio, la loro casa. I tuoi rami cercano la luce e il calore del sole, si protendono verso il cielo, vestiti di foglie perenni. Sei elegante come un sovrano. Le radici ben piantate nella terra, si fanno strada, allungandosi alla ricerca di quell’acqua che è il tuo nutrimento. Ai tuoi piedi, oh maestà, dormono beate volpi, ricci appallottolati e roditori satolli dei tuoi frutti. Sei stato venerato nella storia, hai dato luce e nutrimento, unguento che ha curato ogni malanno. Ora la terra l’abbiamo avvelenata, ti chiedo umilmente perdono per i miei simili. Distruggono tutto e finiremo per distruggere noi stessi. Lasceremo a te, ai tuoi simili e alla fauna che la abita, il tempo di riprendervi il pianeta. Ti ammiro e mi prostro alla tua regalità, oh ulivo centenario. Abbraccio il tuo tronco come un amico ritrovato e perso da lungo tempo. La tua corteccia graffia la mia pelle, aspiro il tuo profumo, mi riparo sotto la tua chioma grigio verde. Il sole ormai brucia e secca, l’acqua scarseggia, a volte avvelenata, non so quanto noi resteremo con te, tormentandoti. Ti prego non morire, non ho voglia di guardare il tuo scheletro distorto e disseccato dalle sofferenze. Piangi le tue lacrime d’oro verde, dal sapore pungente, le mescoleremo al nostro sudore salato. Sei cresciuto con il duro lavoro di chi dissodò la terra grassa per te, di chi ti trovò una casa confortevole in cui crescere e ti nutrì con tutto l’amore che il suo cuore aveva. Ti sei sdebitato abbastanza con noi. Ti auguro di poterlo fare in salute per tanto tempo ancora. Un giorno potrai guardare le nostre anime volare e nutrirti delle ceneri di tutta l’umanità. Un grandissimo abbraccio. Ti voglio bene. Dedicata ai nostri 13 ulivi, tre dei quali portano il nome dei nostri genitori.

venerdì 10 gennaio 2025

Bianco abbacinante

Faccio una breve premessa. Queste riflessioni le ho scritte nel mese di aprile del 2020, un mese dopo la dichiarazione di pandemia. Non le pubblicai a suo tempo, perché le ritenevo poco appropriate all'umore generale di allora. Rilette oggi, restano una mia testimonianza di un periodo che è stato epocale per tutti. Con il senno di poi, possiamo dire, che purtroppo il mondo non è migliorato affatto, semmai peggiorato. In un periodo difficile come questo, la scrittura dovrebbe essere d'aiuto, un'evasione dalla realtà buia in cui ci troviamo, da cui non si sa, se mai riusciremo a scorgere un barlume di luce. Guardo il foglio, bianco, e i pensieri non sono ordinati, ronzano come api operose, ma non si organizzano per uscire. Quel bianco acceca in un deserto di parole mozzate. Troppe parole udite e troppe lette, in un vortice che tocca tutta la rosa dei venti, da ogni direzione e finisce per asciugarne il significato, lasciando al loro passaggio soltanto un vuoto. Giornata grigia di pioggia d'aprile, lieve acquerugiola primaverile che non fa che acuire l'ineluttabilità delle nostre effimere esistenze. La natura ci rigetta e si cura da sola, siamo noi il virus da combattere e col virus incoronato ci annienta. Guardo il tricolore intriso d'acqua, non sventola più, ma penzola floscio dalle finestre, insieme agli arcobaleni e gli auguri di un futuro migliore, scoloriti dal tempo. Lontano il ricordo dei canti dai balconi, il guardarci negli occhi da un palazzo all'altro, per infonderci quel coraggio che nessuno aveva davvero. Abbiamo tirato fuori la spavalderia dei pavidi, un patriottismo di necessità, ma era la paura ancestrale della morte a farlo riesumare. Stiamo a casa, ce lo ripetono incessantemente, ci mettono davanti un hashtag, quel cancelletto informatico, ha uno scopo specifico, ma se ne abusa, così la frase: “Restate a casa” col cancelletto davanti, ormai è parte integrante del concetto. Lo si legge sui tabelloni del Raccordo Anulare, dove un tempo erano evidenziati i tempi di attesa per le code chilometriche e gli incidenti stradali. I cancelletti si moltiplicano: restiamo uniti, ce la faremo, andrà tutto bene. L'umore però scende e gli slogan non reggono più. Boccheggiamo, dentro le mascherine, sui balconi a bere sorsate d'aria, come se rientrando dentro le nostre dimore, dovessimo stare in apnea e battere il record d'immersione. Mi è capitato di uscire dalla città, per curare le piante nel terreno in campagna, me lo consentiva un'ordinanza fresca di proclama. La macchina strisciava su un nastro d'asfalto, tra curve e rettilinei, sola, sembrava la scena di un film apocalittico. La realtà ci ha colpiti come una pallottola in corsa. Un mattino tutto il meccanismo oliato, noi, burattini in un mondo prestabilito, ci rincorrevamo impazziti, poi, è apparso, lui, lo sterminatore. Non ci abbiamo voluto credere. Non doveva succedere a noi, ma soprattutto perché a noi? Lui, silenzioso, di soppiatto si è comportato da invasore, un invasore di corpi. Il meccanismo si è inceppato fino a fermarsi. Nella classica fantascienza anni cinquanta, i corpi venivano invasi dagli alieni, ne “L'invasione degli ultra corpi” di Jack Finney. Qui, si tratta di una specie autoctona che disturbata nel suo habitat, ha deciso di lasciarci parte di sé, o, se vogliamo vederla da un punto di vista letterario, di annientarci, per liberarsi di noi: una dichiarazione di guerra. Avevo pensato di traslare questa orrenda realtà in un racconto simile, con gli alieni invasori, gli eroi e tutto il cliché classico, ma poi niente, pagina bianca, di un bianco abbacinante come era solita dire la mia insegnante di storia dell'arte. Per descrivere il colore, aveva un aggettivo soltanto. Ci sono in mezzo, ci siamo tutti in mezzo, il mondo intero, senza nessun distinguo, la realtà è indigesta. Non si può plasmare il nostro pensiero, le nostre abitudini su un nemico invisibile, agguerrito e mutevole. La vita non sarà più quella di una volta, senza cancelletto davanti, ma altra frase ripetuta ad libitum, scelta tra un campionario limitato di slogan. Come sarà allora? Ci occorre una certezza a cui aggrapparsi, siamo in balia di onde alte e pericolose. Le risposte viaggiano nel vento, da tutte le direzioni, diventano non risposte, perché alla fin, fine, nessuno ha il coraggio di dire che non lo si sa. Il mondo nuovo, il cambiamento che può essere positivo, che dal letame può nascere un fiore, per me sono tutti hashtag senza significato. Da che mondo è mondo, e l'umanità ne ha davvero attraversati tanti di eventi nefasti, non si è mai visto l'uomo cambiare positivamente dopo eventi di tali portata. Ad epidemie è seguita carestia, dopo, guerre. Fuori continua a piovere e il mio umore si è liquefatto in una pozzanghera limacciosa. Butto tutti gli hashtag nel cestino. Andrà come deve andare. Le mie priorità si sono ridimensionate, ora sogno di rimanere in salute e di poter uscire. Di una cosa sono sicura, quando tutto questo sarà alle spalle, per un po', solo per un po', tutto quello che è sempre stato dato per scontato, come la libertà, avrà un sapore tutto nuovo.

domenica 5 gennaio 2025

Un mondo magico

Un paio di ali doppie e trasparenti erano tutto ciò che si poteva notare. Si libravano nell'aria, in alto, lassù dove nessuno avrebbe pensato di guardare. Non facevano nessun rumore, non un ronzio. Se qualcuno avesse alzato lo sguardo, avrebbe visto soltanto le ali e un corpicino minuto attaccato, ma nessuno guardò. Se lo avesse fatto, avrebbe pensato ad una libellula che si era persa nel bosco. Le ali si posarono chiudendosi, nascoste sotto un minuscolo abito azzurro come il colore del cielo. Un corpo snello e minuto posò i suoi piedini sul terreno e si nascose sotto il cappello di un grande porcino. Passò del tempo e altre ali apparvero. Pian, piano le fate si posarono a terra. Ognuna aveva un abito impalpabile di un colore diverso, tutti i colori della natura. Il verde brillante dei prati, il rosso dei papaveri in fiore, il bianco delle nuvole e c'era persino il blu della notte stellata. Cliona, la fata dall'abito azzurro, stringeva al petto un sacchetto. Esso conteneva una cosa molto preziosa: la polvere di fata. - Sorelle – disse, la sua voce sarebbe stata percepita dall'orecchio umano, come un timido stormire di foglie al soffio di una brezza leggera. Vi ho fatte venire perché sta succedendo qualcosa di sconosciuto, si verificano fatti inspiegabili e gli eventi sono negativi. - Troppo ottimista, io direi catastrofici! - Esclamò Aileen. - Dunque è successo anche nel vostro villaggio – Sussurrò timidamente Anya guardandosi intorno con timore. - Se ne parla in ogni piccolo angolo del nostro mondo e non solo del nostro – Disse Aileen. - Avete sentito gli Elfi? - Ho sentito, sorella Cliona. - Giungono voci anche dalle terre di Arrenal, la patria dei Troll. - Se è per questo io ho sentito dire, dalla cugina della Fata Suprema, che anche lassù sul monte Manos gli orchi sono stati colpiti. - Per la Madre di tutte le Fate! Gli Orchi, i più temuti del grande Regno! - Esclamò Anya. - Quando è cominciata? - Chiese Aileen. - Due giri della luna gialla, a quattro passi dallo scoglio del Drago. - Persino alla tana Drago? - A quattro passi, sì – Rispose Cliona. - Avete le vostre bacchette? - Chiese Aileen. - Sorella soltanto una, sono sparite tutte. - Ora anche le bacchette! Cosa faremo senza? - Anya, c'è la polvere di Fata. - Non molta a dire il vero, è rimasta soltanto questa – Cliona mostrò il sacchetto. - Non potreste chiederne altra alla Fata Suprema? - Sua Eccellenza non si riesce più a trovare. - Dobbiamo trovarla. Forse qualcuno l'ha rapita? - Non si sa nulla, Aileen. - Avete provato ad interrogare il fumo fatato? - Non dice più nulla. Non vuole rispondere. - Dobbiamo cercare aiuto negli Elfi – Concluse Anya. - Hai ragione, non c'è alternativa. Il piccolo stormo di fate si rimise in volo verso l'isola di Gherinal, dove viveva una florida comunità di Elfi, sui quali regnava Legaldor da molte centinaia d'anni. Fino ai famosi due giri di luna gialla, il regno degli Elfi aveva vissuto nella ricchezza, data dall'estrazione della pietra di rowin, molto rara e che si trovava soltanto nel loro sottosuolo. Ora, però, tutto era cambiato. Re Legaldor era gravemente malato, giaceva chiuso nelle sue stanze. - Sua maestà non può incontravi – Rispose stizzito il gran ciambellano alle fate. - Non può... - Cominciò Aileen - Farsi... - Continuò Anya. - Negare – Concluse Cliona. Ognuna pronunciava la parola di una frase e tutte insieme facevano una gran confusione. - Vi prego signore Fate – Piagnucolava il gran Ciambellano. - Cosa è successo? - Non posso dirlo ma è cosa inaudita! - Concluse il gran Ciambellano allontanandosi. - Dobbiamo chiedere in giro, quello non parlerà di certo – Disse Cliona. - Hai ragione sorella. Le tre fate, svolazzando di qua e di là come api operose, alla fine vennero a sapere qualcosa. - Voi ci credete a quello che si dice in giro? - Io ci credo! - Esclamò Anya. - Non lo metto in dubbio, tu credi sempre a tutto – Disse Cliona con fare materno. - Stavolta però ci credo anch'io – replicò Aileen – Con tutto quello che sta succedendo nel mondo delle fate, perché non crederci. - Dunque tu credi che a Re Legaldor sia davvero scomparso un braccio e che prima di scomparire sia diventato improvvisamente trasparente? - Certamente! Non è scomparsa anche la Fata Suprema? - Sì ma non in porzioni! - Esclamò Cliona. - E se fosse successa la stessa cosa? - Oh Grande Madre! Non ci avevo pensato – Disse Anya sgranando gli occhi. - Gli Elfi non possono aiutarci dobbiamo armarci di un grande coraggio e chiedere altrove. - A chi stai pensando Cliona? No, a loro no! - Gridò Anya - Non ci vengo neanche io, lì! - Esclamò Aileen. - Se vogliamo salvare il mondo intero dobbiamo – Disse Cliona - Dalle Streghe? - Rimarcò Aileen. - Senza bacchette per proteggerci dai loro incantesimi malefici e con poca polvere di Fata, dove credete di andare? - Strillò Anya. - Se quello che sta succedendo è così grave, sarà capitato anche a loro qualcosa di nefasto e capiranno – Concluse Cliona per convincerle. - Certamente! Ma potrebbero anche scagliarcisi addosso per salvare la loro pelle. Sono fatte così lo sapete anche voi – Disse Aileen - Dobbiamo rischiare. Solo i loro poteri forse ci salveranno – Mentre parlava così Cliona, ad Anya cominciò a diventare trasparente la mano sinistra. - Per la Grande Madre di tutte le Fate! Anche noi siamo in gravissimo pericolo. - Aiuto! - Gridò spaventata Anya. Le fate senza indugiare oltre si alzarono in volo, sorreggendo la sorella Anya che pian piano andava divenendo sempre più eterea e sofferente. - Presto, fate presto! - Gridava Cliona. La Terra delle Streghe era racchiusa in una buia foresta, dove la luce del Grande Astro non penetrava. Fumi neri e puzzolenti uscivano dal terreno, lì dove esistevano le loro abitazioni. Quattro sentinelle, a cavallo di scope, volavano in perlustrazione perenne, appena scorsero le tre fate scatenarono una tempesta di fulmini. - Non cerchiamo scontro! Cerchiamo aiuto - Gridò Cliona. Per tutta risposta ebbe una grassa risata sarcastica. - Siamo nemiche da sempre. Voi, minuscole benevole fatine zuccherose, cosa volete da noi? Le fate, stremate, chiesero udienza alla Grande Strega suprema Dahut. Tra i singulti di Aileen e le frasi concitate di Cliona, raccontarono tutto quello che sapevano, mentre, la sofferente Anya scompariva sempre di più. La Suprema Dahut stette ad ascoltare in silenzio, nascosta da un lungo mantello nero che non faceva intuire le sue deformità. - Consulteremo la sfera ruotante! - Carman, Irce portate la Sfera nel salone degli incantesimi – Ordinò la Strega Suprema. - Sia chiara una cosa – Puntualizzò prima del rito, puntando un dito ossuto contro le fate. - È soltanto una tregua. Dette poi iniziò all'incantesimo del Futuro Nebuloso. Quello che vide lasciò di stucco anche lei, avvezza a ogni tipo di nefandezze e crimini. - Stiamo morendo – Disse alzando le braccia ossute al cielo. - Dobbiamo combattere, dobbiamo resistere – La pregò Cliona. - Troppo tardi – Disse Dahut. - Ma chi è il nemico? Cosa ci sta annientando? - L'Illuminismo! - Rispose la Grande Strega. E aveva ragione, perché di lì a qualche tempo dopo, quel mondo pezzo a pezzo scomparve, per lasciare il posto alla Grande Scienza e da allora gli uomini, quando vedono volare una Fata dicono che è una libellula che ha perso la strada.