A te navigante...

A te navigante che hai deciso di fermarti in quest'isola, do il benvenuto.
Fermati un poco, sosta sulla risacca e fai tuoi, i colori delle parole.
Qui, dove la vita viene pennellata, puoi tornare quando vuoi e se ti va, lascia un commento.

giovedì 15 agosto 2024

Un topo sfortunato

Un mattino, come tutti gli altri, aperte le persiane per arieggiare la casa, con calma mi avvio in cucina. Preparo la moka e m’immergo nell’aroma inconfondibile del caffè che borbotta ed esce schiumoso. Annuso l’aria come se il profumo della bevanda avesse il potere di svegliarmi. Annuso aspirando con piacere, ma alle mie cellule olfattive arriva uno sgradevole odore. Come un segugio comincio ad annusarne la provenienza. Mi accorgo spiacevolmente che è nel sotto lavello che c’è la massima concentrazione, è lì che c’è il bidone della spazzatura. Deve essere marcito qualcosa, la puzza è davvero insopportabile, ora il caffè neanche si sente più. Il cattivo odore ha invaso tutto il locale. Toccherà togliere il sacchetto pieno e metterlo nel contenitore dell’umido, in attesa del ritiro. Apro lo sportello e resto interdetta. C’è un animale grigio scuro, dal codino lungo e affusolato che beatamente sta sopra il contenitore dell’umido. Un attimo e penso, come sarà finita la mia gattina grigia lì sotto? La bestiola si gira, ci guardiamo negli occhi e parte in automatico l’allarme. C’è un topo! Grido al consorte. Lui accorre e lo vede, è un’arbicola deve essere entrata dalla zanzariera rotta, ieri sera. Nel mentre che verifichiamo la razza e la stazza, il topo, fa un salto dietro il lavandino e sparisce. Comincia la caccia, lo dobbiamo far uscire. L’intenzione non è ucciderlo, ma restituirlo alla natura. Chiediamo aiuto ai cacciatori di topi per eccellenza, i mie due gatti. Mimmeri, gattone di 8 kg, rosso di pelo e indolente di carattere, avanza lemme, lemme al mio richiamo: - Mimme, vieni, corri stanalo! Dove si è nascosto solo tu lo puoi sapere. Il rosso si avvicina circospetto, mi guarda, quasi chiedendomi ma perché mi hai scomodato, che vuoi? Dove sono i croccantini? Lo segue circospetta e paurosa Stellina, una gattina tigrata minuscola, è esattamente la metà di Mimmeri. Lei fa il giro della cucina, lo deve aver individuato, perché improvvisamente scappa a zampe levate verso la porta. La richiamo con fare suadente, lei allunga un po’ il collo ma poi fa due passi indietro e resta rigorosamente fuori dalla porta. Mimmeri neanche mi guarda più, offeso perché l’ho chiamato senza ricompensa. Poco dopo li sorprendo a sgranocchiare le crocchette. - Siete due mangia crocchette a tradimento! Loro mi guardano e se potessero parlare direbbero, ma cosa vuoi da noi? Non ci sono più i gatti di una volta. Rassegnati al fatto che l’incombenza di stanare la bestia toccherà solo a noi, decidiamo di chiudere la porta e aprire la portafinestra sulla veranda. Da lì è entrata e da lì, speriamo, esca. Facciamo il più rumore possibile, niente, da sotto il mobile della cucina, non esce neanche un granello di polvere. Mi metto di guardia sulla finestra armata di scopa. Se esce l’accompagno “gentilmente” verso la libertà, non ti uccido, penso, ma un po’ male ti farò. Il sotto lavello è un campo di battaglia di escrementi di topo e immondizia sparsa. Io lì le mani non ce le metto, penso, ma poi devo farmi forza. Prima però tocca stanare il benedetto topo, altrimenti saremo punto e a capo. Il marito, dopo attenta ispezione, sentenzia che sotto il lavello non c’è. Forse si sarà rifugiato dietro il frigorifero. La cucina è stretta e spostare il frigorifero implica un gioco delicato di incastri. Lui sposta e io sono di guardia. La bestia non si vede, dietro il frigo non c’è niente. Visto che ha spostato l’elettrodomestico, mi armo di scopa e mocio e pulisco il pavimento sotto. Ci accorgiamo con sommo disappunto che dietro il frigo, dove c’è il motore, è aperto. Oddio, se fosse lì sotto e seguisse l’elettrodomestico passo, passo? Una volta la mia gatta l’ha fatto, per non farsi prendere, sempre bestie sono. Prendiamo un lungo attrezzo sottile che possa entrare nell’intercapedine, se non esce così, allora non è lì. Non esce. Rimettiamo il frigorifero al suo posto. Non ci resta che smontare il forno. Grondiamo sudore, fuori ci sono 40 gradi, il nervoso comincia a tagliarsi col coltello. - L’hai visto? - chiede il marito ormai rassegnato allo smontaggio del forno - Nulla di nuovo dal fronte! Lui esce ed entra, armeggiando tra la cantina, dove ci sono tutti i cacciaviti e la cucina. Io apro e richiudo la porta armata di scopa. Non sia mai che la bestia scappi per la casa, sarebbe una tragedia. Tutti i cacciaviti che il marito prende, non vanno bene e la battaglia si allunga nel tempo. Apri la porta, chiudi la porta. Finalmente dopo averlo smontato deve toglierlo dal mobile. È molto pesante, io non posso aiutarlo per via della mia schiena scassata, lui fa uno sforzo e si stira un muscolo. Zuppo di sudore, inviperito e ora anche stiracchiato, mi guarda con sguardo desolato. - Sarà lì per forza – dice sconsolato. Non è neppure lì, ma sotto c’è di tutto, non è che spesso ci si mette a smontare il forno. Scopa e mocio e si continua. - Tutti i cassetti fuori! - Grido io, neanche fossi maga Magò. Dopo una mattinata di smonta, pulisci, rimetti tutto a posto, la cucina profuma, ma del topo nessuna traccia. Probabilmente è uscito alla chetichella, rasentando il muro opposto mentre io facevo la guardia. Abbiamo perso due litri di sudore, sfiniti, crolliamo. Se un topo è entrato, ragioniamo a freddo, ce ne saranno vari. A malincuore mettiamo le esche. Dopo qualche giorno, la povera bestia la troviamo stecchita sotto casa. Pietosamente il marito la seppellisce scavando una buca, vicino alla tomba della cornacchia, Silvietta, morta di morte naturale. Questo terreno sta diventando un cimitero di bestiole sfortunate. Mi sento in colpa e penso: - Sei stato proprio sfortunato, se non fossi entrato in casa, neanche avremmo saputo della tua esistenza e tu staresti ancora razzolando nella spazzatura di qualcuno.

martedì 7 maggio 2024

La famiglia Cornacchioni

Il giovane Silvio Cornacchioni era alla ricerca dell’anima gemella con la quale mettere su famiglia, ma nessuna, fino a quel momento lo aveva mai soddisfatto. Quel giorno zampettava giulivo, scavando col lungo becco nero tra l’erba appena tagliata, alla ricerca di vermi e insetti da mangiare. Era parecchio affamato, perché per due giorni aveva piovuto ininterrottamente e non era stato facile cercare del cibo. Aveva rubacchiato qualche ciliegia rossa rubino, appena matura, ma il contadino l’aveva scacciato urlandogli contro mille improperi. Fu allora che a testa bassa, quasi si scontrò con la più bella creatura che avesse mai visto. Molto imbarazzato per l’accaduto, cercò di schivarla e un po’ gracchiò le sue scuse. Lei si fermò dal razzolare alla ricerca d’insetti e lo guardò molto interessata, con quei grandi occhi nerissimi su cui si rifletteva la luce del sole. - Buongiorno – gli disse – anche lei gracchiando con voce ferma. - Buongiorno – rispose lui – non l’ho mai vista da queste parti, da dove viene? - Poi aggiunse come scusandosi: - Mi chiamo Silvio Cornacchioni. Lei facendo l’inchino rispose: - Sylvie Del Belvedere Dal Pino Alto. - Perbacco è anche nobile! - Pensò Silvio, lisciandosi le piume dell’alta sinistra. - Molto lieto di aver fatto la sua conoscenza miss Sylvie, posso chiamarla per nome? - Certamente signor Silvio – rispose lei cercando di apparire nella sua forma migliore. Da quel giorno, la coppia si vedeva sempre insieme, ma qualche cattivo becco aveva cominciato già a spettegolare su di loro. - Cosa penserà la famiglia di lei di un mediocre individuo come il signor Cornacchione? Lei è di una famiglia altolocata viene dall’altra parte del campo, i suoi sono molto ricchi, hanno un nido di tre piani sulla quercia alta. - Mi domando piuttosto cosa ci abbia trovato lei in uno come lui, sta sempre alla ricerca di femmine e di cibo, è un morto di fame perenne. Le chiacchiere s’ingigantivano e giravano, giravano per ogni albero del circondario, erano perfino arrivate alle orecchie dei passeri e dei piccioni. La coppia però non ci faceva caso, tutta presa dal loro amore. Volavano uno davanti all’altra, planando con grazia sempre dietro all’uomo che con quell’aggeggio infernale tagliava l’erba. Gli zampettavano dietro, ala nell’ala, si potrebbe dire. Un giorno Silvio decise di chiederle di sposarlo. S’inchinò davanti a lei e le porse il bruco più ciccione che avesse mai trovato. Il bruco lo guardava ormai rassegnato alla sua sorte e tremava, ma tant’è, oltre che cibo, fu anche testimone del grande sì che Sylvie gli dette come risposta. La difficoltà più grande fu incontrare i genitori di lei. Il burbero padre, il conte Alvaro Dal Belvedere Del Pino Alto e la contessa Irene Codalunga dalla Grande Quercia suscitavano in lui un puro terrore. Il padre lo accolse osservandolo con il monocolo posato sull’occhio, la madre quasi non lo degnò di uno sguardo, muovendo frettolosamente le piume delle ali, per farsi vento. - Signor conte, vorrei chiedervi la mano di vostra figlia Sylvie– Cominciò Silvio, gracchiando per l’imbarazzo. - Mi spiace dirvelo, signor… - Cornacchioni – rispose Silvio molto agitato. - Signor Cornacchioni, come dicevo, non credo che voi siate all’altezza di quella scapestrata di mia figlia. Cosa le potete offrire voi? - Non posseggo molto, ma ho tanto amore da darle. - L’amore non basta e non acconsentiamo alle nozze! - Esclamò il conte liquidandolo. Silvio se ne andò con le piume della coda tra le zampe, a testa bassa. Spiccò il volo e andò a piangere lontano, sul ramo di ulivo che lo aveva sempre accolto. Si era da poco posato un piccolo passero, anche se il signor Cornacchioni lo spaventava molto, si avvicinò e gli porse una mollica di pane che aveva appena razzolato per terra. - Cosa le è successo signor Cornacchioni, la vedo triste, non faccia così, oggi ci sono tanti vermetti da raccogliere, vedrà che non soffrirà la fame - nel dirlo, però, prudentemente volò via. - Anche tu pensi che io sia un morto di fame! - Esclamò singhiozzando. Nel frattempo si era scatenata una lite violenta a casa del conte. Sylvie non voleva obbedire al padre, disse che se ne sarebbe andata via di casa se non poteva sposare il suo Silvio. Fuggì una mattina all’alba, quando i genitori dormivano ancora, aprendo le ali e non voltandosi più indietro. Silvio se la trovò a razzolare davanti a lui, dietro all’uomo con la macchina infernale, che zampettava tutta contenta. - Cosa fai qui? - Le chiese lui - Sono venuta da te, ho detto che ti avrei sposato e lo farò. - Io non posso darti tutto quello che ti offre la tua famiglia. - L’ho sempre saputo e non me ne importa. Qui c’è cibo per tutti e due. Furono organizzate le nozze. Gli invitati accorsero in tanti, c’era perfino il dotto Gufo Dagli Occhi Gialli, che officiò la cerimonia. Il banchetto fu ricco, l’erba era stata tagliata da poco, c’erano quindici passeri, dieci pettirosso, quattordici piccioni e due gazze ladre, che si rubarono subito il centrotavola che luccicava. La coppia aveva affittato uno dei rami più alti del pino che troneggiava al di là della strada, davanti al prato dove si erano conosciuti. Da lì si poteva ammirare un panorama mozzafiato, si vedeva un campo pieno di fiori di tutti i colori e i tetti delle case, dove rifugiarsi in caso di pericolo. Tra i pini, si stendeva un lungo filo elettrico, opera degli umani, dove Silvio si posava di vedetta per aspettare l’umano che rasava l’erba. A volte, accanto, si vedeva anche Sylvie, appena udiva il rumore del motore, era sempre la prima a planare, seguita dal marito. Sul loro nido avevano fatto affiggere una targa: Famiglia Cornacchioni, il regalo di nozze di Picchio Battitore. In primavera, Sylvie depose le sue prime uova, lucide e azzurre come il cielo con tanti puntini bruni. Silvio si dava da fare freneticamente per portarle il cibo. Un caldo giorno sentì vari pigolii provenire da sotto Sylvie. Erano nati i loro quattro pulcini. Li chiamarono: Lilla, Briciola, Piuma Lucida e Brucolo. Briciola e Brucolo perché non erano mai sazi. Li sfiancavano nel cercare loro il cibo, sempre col becco spalancato tutti e quattro. I due genitori planavano e razzolando seguivano l’uomo che tagliava l’erba, sempre più vicini a lui, ormai si fidavano ciecamente. L’uomo, a volte, li chiamava da lontano. Dopo circa tre settimane, ad uno, ad uno, con gran gioia di mamma Sylvie impararono a volare e poco dopo se ne andarono per i fatti loro, formando nuove famiglie. Silvio e Sylvie invecchiavano insieme. Lui era diventato un più lento nel razzolare, zompettava con calma alla ricerca di cibo. Lei aveva perso alcune delle sue meravigliose piume, quelle che avevano fatto innamorare di lei Silvio. Ci vedeva anche meno, a volte, era lui a passarle qualche lombrico sprovveduto, però si amavano ancora come il primo giorno. Una notte nefasta, un gattaccio grosso e rossiccio, salì sul ramo dove Sylvie riposava. A volte non se la sentiva più di volare fino al loro nido, troppo alto per le ossa doloranti. La prese alla sprovvista, dato che non ci vedeva quasi più. L’azzannò al collo e se la portò giù. Silvio non si accorse di nulla. Il mattino dopo fu l’uomo a trovarla esanime, con le piume sparse a terra. Pietosamente le scavò una buca e la seppellì, lì, su quel prato dove lei e Silvio si erano amati. Silvio l’ha cercata per giorni, chiedendo a tutti gli uccelli di varie razze se l’avessero vista, ma nessuno ebbe il coraggio di dirgli la verità, tutti facevano di no con la testa, con aria sconsolata. Ora zampetta tutto solo alla ricerca di cibo e ogni tanto la chiama, sempre più rassegnato, crede che sia scappata per altri nidi. P. S. In memoria di Sylvie o come la chiamavamo noi Silvia. Silvietto e Silvia hanno fatto parte della famiglia di animali che si trova sul nostro terreno. Ora Silvietto ci fa tanta pena, mentre segue mio marito dietro al taglia erba, tutto solo e spaesato.

venerdì 3 maggio 2024

La casa nei ricordi

La prima casa in cui Franco e Ivana, i miei genitori, andarono a vivere fu l’appartamento in cui mio padre era nato e vi viveva con suo padre, Riccardo. Sua madre era morta qualche anno prima. Di comune accordo, i miei, decisero di coabitare con Riccardo, per non lasciarlo solo. La convivenza non fu facile. Ivana non aveva previsto le incomprensioni future. Aveva immaginato Riccardo come suo padre Armando, una persona che si faceva i fatti propri e non s’immischiava mai nella vita dei figli. Riccardo aveva un carattere molto forte, spesso invadente, nella sua educazione ottocentesca, nato nel 1894, il capofamiglia doveva decidere e controllare la vita dei congiunti. Per Ivana fu molto difficile, specialmente dopo la nascita dei figli. Le discussioni erano all’ordine del giorno, tra lei e il suocero, tra Franco e suo padre. Mio padre si trovò al centro di una guerra, da una parte, in cuor suo, sapeva che sua moglie aveva ragione, ma voleva anche bene a Riccardo. A volte taceva, a volte, dopo aver accumulato rancore contro suo padre, lo attaccava, scoppiava la lite. Noi ragazzini non capivamo, stavamo in mezzo a quelle battaglie senza saperne il perché. Riccardo era un nonno che amava molto i suoi nipoti, gli unici, perché mio padre era figlio unico. Noi ricambiavamo il suo affetto, lo amavamo incondizionatamente. Se tra gli adulti non c’era pace, con noi era sempre molto indulgente. Ci regalava qualche giocattolo, giocava con noi, per i primi anni delle elementari mi accompagnava e mi veniva a riprendere a scuola. A volte copriva qualche mia intraprendenza, come la volta che a sette anni tornai a casa da sola, perché mia madre aveva tardato ad arrivare, aspettò con me che rientrasse, sul balcone del salone, affinché già dalla strada potesse vedere che ero incolume e non mi aggredisse nel trovarmi già a casa. Tra loro adulti, però, non si riusciva a trovare accordo. Dopo undici anni, la misura fu colma. I soldi, faticosamente messi da parte, bastarono per acquistare una casa propria e trasferire la famiglia. Fu Ivana a prendere l’iniziativa, Franco temporeggiava, temeva di lasciare suo padre e che i soldi non fossero ancora sufficienti. Ivana cominciò a guardarsi intorno. A metà anni sessanta, i cantieri nel quartiere proliferavano, ne visitò parecchi. Era nato da poco il terzo figlio e si cominciava anche a stare stretti in quella casa, in uno dei vecchi lotti della Garbatella. Durante la guerra, una bomba era caduta su un terreno senza costruzioni, lasciando una buca enorme con un vasto prato incolto. In quel periodo la recintarono, con assi di legno, come era uso in quel tempo, per coprire il cantiere alla vista dei curiosi. Ivana cominciò a sbirciare tra le assi le scavatrici all’opera, scavano per le future fondamenta di un nuovo palazzo. Il palazzo sarebbe sorto proprio accanto al lotto dove ancora vivevano i suoi genitori. Passando, Ivana si chiedeva chi avrebbe abitato lì. Quando i lavori finirono, dopo circa due anni, andò a visitare i vari appartamenti e ci porto Franco, è lì che aveva deciso di vivere. Acquistarono uno degli appartamenti più grandi, centodieci metri quadri, al sesto piano con una vista mozzafiato sulla vecchia Garbatella. Dovettero fare un mutuo ventennale e qualcosa prestò loro Riccardo. Ricordo poco di quel periodo, avevo soltanto sei anni, ma la famiglia era in fermento, per il trasloco e la nuova vita che sarebbe cominciata. Nella vecchia casa dormivamo tutti nella stanza dei miei, l’altra era di mio nonno Riccardo. Nella nuova avevamo una stanza, grande, tutta per noi. I letti a castello, di ferro battuta verniciati di rosso, furono divisi in letti singoli, per me e mia sorella. Mio fratello dormiva ancora con i miei, poi il suo lettino fu spostato in mezzo ai nostri, per non farlo cadere di notte. Ricordo con quanto entusiasmo mio padre, dipinse le pareti della camera, scegliendo i colori su alcuni esempi trovati nell’enciclopedia della donna, allora molto di moda. Due pareti, le più lunghe color salmone, le corte in giallo canarino, la porta blu. A pensarci ora mi sembrano accostamenti azzardati, ma a noi piaceva molto. Lì giocavamo a fare i cantanti, imitando quelli che sentivamo in tv. Inventavamo giochi, ci nascondevamo per casa. Nella nostra camera, mia sorella, costretta a letto per le tonsille infette che avrebbe dovuto togliere di lì a breve, mi ascoltava leggere Pinocchio, insieme al più piccolo, a bocca aperta, ero in quinta elementare e l’unica che sapeva leggere tra loro. Il lungo salone, di sette metri per quattro, fu arredato con mobili nuovi, in uno stile ispirato al barocco, di cui non ricordo il nome preciso, di palissandro lucido. Un tavolo ovale con una lastra di alabastro a lato della cristalliera. Divideva il lungo salone il salotto di velluto in lino, color cognac. L’ampio ingresso fu arredato in stile impero, l’attaccapanni di raso bordò, come le due sedie in ottone ai lati della consolle di marmo alabastro. Completavano il tutto due lampadari a goccia di cristallo, molto di moda allora che io ho sempre odiato. Dei mobili in loro possesso, fu traslocata soltanto la camera matrimoniale. La casa aveva due bagni, uno padronale e uno di servizio, lungo e stretto, destinato a noi ragazzini. Mio nonno veniva tutte le mattine e andava a casa sua la sera. Gli avevano acquistato una comoda poltrona posizionata al salone, dove c’era la tv. Lì, lui si riposava, leggeva i giornali e giocava con noi nipoti. Ricordo, con molta nostalgia, che mi piaceva rubargli la pagina dei fumetti, del quotidiano che amava leggere. Lo ripiegava con cura e io glielo stropicciavo sempre, si arrabbiava, ma poi, gli veniva da ridere. Vivevamo in spazi larghi, ma le liti, purtroppo, continuavano. Mia madre si sfogava con me di mio nonno e lui di lei. Io soffrivo perché volevo bene a tutti e due. Sono stata molto legata a mia nonno, ricordo con quanto affetto ci organizzava i compleanni, la zuppa inglese che era il dolce del compleanno. La domenica portava le paste, di tutti i gusti, era una festa. A Natale, dopo le immancabili letterine a nostro padre, giocavamo tutti a tombola, perché lo voleva lui e noi nipoti a litigarci il tabellone. Sono stati i migliori Natali della mia infanzia. Sei anni dopo il trasloco, lui ci ha lasciati per sempre, avevo 12 anni. È morto il giorno di Natale e i Natali non sono più stati una grande festa, per parecchio tempo. La cosa che mi colpì tanto, dopo la sua morte, fu di vedere le impronte delle sue dita sulle cornici d’argento in cui teneva le nostre foto. Gli erano sopravvissute. Quelle cornici sono state moltissimi anni nella casa dei miei, con foto diverse. Ora le ho prese io in eredità, continuano a farmi ricordare di lui. Mi rammento di mia madre, che era sempre intenta a pulire, levava le nostre impronte dai muri, con la spugna insaponata. Tre figli erano un bel lavoro. Qualche volta, giocavamo, ognuno sul suo balcone, dalla parte del cortile, con il figlio della vicina di sotto, Mauro, dell’età di mia sorella. Sembravamo un po’ delle bestioline in gabbia. A volte venivano i figli della dirimpettaia, più o meno dell’età di mio fratello e giocavano a soldatini con lui. Li mettevano tutti in fila e poi simulavano il rumore degli spari, buttandoli giù ad uno, ad uno. Con gli anni le esigenze della casa cambiarono. Noi crescevamo e la nostra camera fu completamente rivoluzionata. Fu acquistato un mobile libreria, a parete, con due letti a scomparsa, per me e mia sorella. Al centro della stanza un tavolo tondo, al salone non abbiamo mai mangiato. Nelle occasioni, mangiavamo su un tavolo ripiegabile, tondo, in mezzo al grande ingresso, oppure visti gli orari scaglionati di tutti, in cucina. La sera il tavolo veniva spostato all’angolo della stanza e i letti tirati giù. Diventati grandi, era ormai necessario avere una stanza da pranzo agevole e vicina alla cucina. A mio fratello fu acquistato un lungo mobile con letto a scomparsa e mandato a dormire in salone. Maschio e femmine non dovevano dormire insieme. Con mia sorella fu sempre una lotta la condivisione. Io voleva leggere prima di dormire, a lei dava fastidio la luce non siamo mai state d’accordo su qualcosa. Rivedo mio padre, la mattina del mio matrimonio che aveva perso il bottone del polsino della camicia. Nervoso, come lo era sempre, chiamava mia madre per farselo riattaccare, si concentrava sui particolari, per non pensare che la sua prima figlia avrebbe lasciato il nido. Io alle prese con il fotografo che scattava foto in salone, ero in panico, perché non arrivava il bouquet da sposa. Sono uscita da quella casa al braccio di mio padre. Cucinare in quella piccola cucina è sempre stato difficile, due persone si scontravano irrimediabilmente. Quando mio padre è andato in pensione, è stato il suo regno, lui amava cucinare, ha estromesso mia madre. Se ripenso a quella cucina, vengono a galla ricordi mescolati, di vari periodi. Lì, mio fratello, di un anno, andava a rovistare nella pattumiera, mia madre fu costretta a metterla in alto, sul muretto del balcone della cucina, per non farcelo arrivare. A volte, mezzo addormentato, sempre più o meno di quell’età, la scambiava per il vasetto e ci faceva pipì. Rivedo mio nonno seduto in quella cucina che rideva a crepapelle raccontando gli scherzi fatti in gioventù ai colleghi di lavoro. Lo chiamavamo nonno Bomba per quei suoi scoppi di risa. Rammento le discussioni tra mio padre e mia madre, discutevano sempre, su tutto, in quel Natale si concentrarono su come andavano preparati i cannelloni, per noi, diventati ospiti dopo i matrimoni. In un salto temporale all’indietro mia madre, agitatissima che prepara la cena fredda per la mia cresima, una delle poche volte che abbiamo avuto i parenti e mangiato in salone. Sento risuonare la forte voce di mio padre, quando cantava l’inno nazionale per addormentare mio figlio, cullandolo in braccio. Anche lui ci ha lasciati da tanto tempo. Ivana è rimasta per vent’anni sola, in quella casa, troppo grande per una persona, ma lì aveva tutta la sua vita. La rivedo incurvarsi, invecchiare rapidamente, prima sul bastone, poi con il rollator, curare le sue piante, innaffiarle e lamentarsi che mancavano di concime, che avevano le cocciniglie o gli afidi, mi faceva comprare i prodotti appositi ma poi non sapeva come diluirli. Le ore passate con lei, negli ultimi anni, sedute a quel tavolo tondo, nella stanza che un tempo era la nostra, che poi è diventata quella in cui ci riunivamo tutti, con i nipoti, nelle occasioni. Noi siamo invecchiati, i nipoti sono uomini e anche lei ha intrapreso il lungo viaggio. La casa è stata messa in vendita, il cuore mi batte ogni volta che entro lì. Rivivo tutti i ricordi. Rivedo loro sorridenti e felici, giovani, come erano all’inizio. Li rivedo nella malattia e nella morte. Mi mancano tutti, il nonno e i miei genitori. Non sarà facile lasciar andare quella casa. Vederla svuotare, per me come gettare via anni della vita di tutti. Vedere estranei vivere lì, dove abbiamo vissuto soltanto noi, mi fa stare malissimo. Per questo ho deciso di scrivere queste righe affinché la casa, ma soprattutto chi ci viveva, restino sempre dentro di me. Spero che un giorno, quando non ci sarò più, chi leggerà queste righe, possa passare i ricordi a nuove generazioni.

giovedì 7 settembre 2023

Un grido

Nel volto bagnato di tua madre,
dolore e gioia.
Il sapore salato di lacrime e sudore.
Un grido, il suo. 
Un grido, il tuo.
Venisti al mondo,
un respiro,
un vagito alla volta: 
il tuo diritto alla vita.
Erano tempi di regime e gli anni,
numeri romani. 
Saluti a braccia tese, 
fez e camicie nere. 
Correvi sull'erba,
veloce,
felicemente ignara,
rincorrendo farfalle.
La strada è stata lunga,
percorsa con tenacia.
Coraggio e fede: 
le tue armi.
Hai riso fino alle lacrime,
hai pianto lacrime amare. 
Bambini cullati,
vegliati,
cresciuti nel tuo amore immenso,
di madre,
di nonna.
Negli anni,
un poco piegata dal peso della vita.
Pregavi,
con fervore,
sgranando il rosario.
Avanti e indietro,
col fedele bastone,
per quel corridoio,
diventato il tuo ultimo tratto di strada
Un grido,
il tuo.
Un respiro alla volta;
l'ultimo respiro...
E te ne sei andata.

mercoledì 25 novembre 2020

L'uomo con il violino

 



Il cielo era rosso all'orizzonte, riempiva ogni spazio di blu, come un pennello impazzito, sfuggito dalle mani di un pittore maldestro. 

Erano i fuochi che ardevano e distruggevano tutto, dopo l'ennesimo bombardamento. Tutti i sensi ne erano occupati. L'udito aveva dapprima percepito l'arrivo degli aerei, poi le deflagrazioni, il tonfo dei detriti che schizzavano impazziti, come meteore cadute casualmente al suolo, dal cielo, le grida disperate, le sirene d'allarme.

La terra aveva tremato, come se un mostro sotterraneo fosse stato svegliato troppo presto dal suo letargo. Le narici percepivano l'odore di bruciato, di polvere  sottile, che pian, piano ricopriva ogni cosa di bianco. La pelle scottava. La vista era piena di distruzione.

La gente, impazzita dal terrore, correva in ogni direzione, alcuni stringevano tra le braccia bambini inerti, altri, col volto ricoperto di sangue e polvere, avevano il colore della morte. Molti ricercavano i loro cari sotto le macerie, urlavano i loro nomi, piangendo.

Al centro del quartiere bombardato, c'era un'ampia piazza, in gran parte ricoperta dai detriti, che andavano ad ostruire le vie attorno.

Un bambino  piangeva disperato, il volto impastato di lacrime, moccio e polvere, sedeva su quello che rimaneva di una casa. Forse, sua madre, era sotto le macerie, forse,  dispersa e lo stava cercando. Era paralizzato dal terrore. 

Un uomo, al centro della piazza, sembrava uscito da un'altra dimensione. Osservava la scena con una calma apparente, come se lui fosse fuori da quel palcoscenico d'orrori. Sembrava che i suoi occhi stessero soppesando ogni singolo elemento, come un fotografo che vuole rimanere imparziale e registra soltanto l'attimo.

L'uomo però non aveva nessuna macchina fotografica a tracolla. Ben ritto sulle gambe si girava intorno lentamente, le braccia allargate, come un compasso nel disegnare un immaginario cerchio.

Le sue mani, si muovevano a cadenza, dirigeva un'orchestra di morte.

Fece due passi verso il bambino, incerto sul da farsi, poi si avvicinò e lo prese in braccio, cullandolo per calmarlo. Poco più in là, una donna camminava smarrita, tremando. L'uomo le si avvicinò lentamente, e gli tese il bambino, che si era un poco quietato. La donna per istinto lo prese,  ma non era suo figlio. L'uomo proseguì verso quella che era stata la sua casa. Camminava piano, scavalcando a fatica i detriti, pensando a ciò che avrebbe trovato, a chi non avrebbe più ritrovato.

Il dolore suo, di tutti, lo colpì, come un colpo di fucile al cuore e cominciò a singhiozzare. Il suo petto si sollevava e poi cadeva giù, come fosse il suo ultimo respiro. 

Arrivavano con difficoltà i soccorsi, chiedevano silenzio per individuare i sepolti vivi. La gente, però, non smetteva di gridare. 

L'uomo si asciugò le lacrime al vento rovente, raddrizzò le spalle piegate da tanto peso e pensò a cosa potesse fare lui, per far cessare tutto quell'orrore. Era un violinista, avrebbe combattutto nell'unico modo che conosceva: con la musica.

La sua casa era distrutta, rimanevano solo gli stipiti della porta d'entrata, ancora in piedi. Con cautela entrò, e a terra, intatto, come se Dio avesse voluto preservarlo, trovò il suo violino, accanto il corpo inerte di sua moglie. La prese tra le braccia dolcemente, senza più lacrime per piangere.

Prese il violino, uscì a precipizio e tornò sui suoi passi, in mezzo a quella piazza che era il centro del caos. Lì, in piedi, posizionò lo strumento tra il mento e l'orecchio, mentre con l'altra mano teneva l'archetto. Nel battito d'ali dell'angelo della morte, prese a suonare.

Le note, celestiali, correvano nell'aria, lo circondavano,  danzavano lievi, andando a lenire, come  balsamo, i corpi straziati dei morti e il dolore lancinante dei vivi. 

La guerra, la morte che le cammina accanto, alitando sugli uomini il suo orribile fiato, per una volta, furono battuti da uomo che non aveva voluto arrendersi.

lunedì 16 novembre 2020

C'era una volta

 



La sua migliore amica, ai tempi della scuola media, l'aveva conosciuta proprio in classe. Era entrata spaesata, non conosceva nessuno, la scuola si trovava in un quartiere limitrofo, per raggiungerla doveva prendere l'autobus. Ad undici anni le sembrò un'avventura, non era mai uscita dal quartiere, né tanto meno, mai salita su un autubus da sola. 

Nell'androne della scuola, dove erano radunati tutti gli studenti della prima media, si guardava intorno timidamente, disorientata dall'ambiente sconosciuto. Una volta formata la classe ed entrata, una delle professoresse, quella di educazione fisica, le allineò una vicina all'altra per ordine d'altezza e lei si trovò al banco con Maria Rita. La ragazzina, timida anche lei, le rivolse un sorriso un po' tirato. Era longilinea, la magrezza sottolineata ancora di più dal grembiule nero, stretto in vita da una cintura. I capelli corvini  mossi, un po' abboccolati, tenuti in ordine da una fascia rosa. Gli occhi neri, guardarono gli occhi dell'altra, quasi a cercare un conforto. Si piacquero subito le due ragazzine, e a quel banco, insieme, oltre a tenersi per le mani, quasi a stritolarle, durante le interrogazioni, si raccontavano le loro vite, i primi palpiti di cuore, ridendo spensierate.

Carla era tutto l'opposto fisicamente. Cicciottella, portava gli occhiali per uno strabismo che l'aveva afflitta fin dalla più tenera età. Ora il suo sguardo era dritto, ma la vista ancora imperfetta. Capelli castano chiaro, un po' mossi, occhi verdi, dietro le lenti. Aveva un aspetto impacciato, come molte adolescenti di quell'età. Maria Rita era sempre inappetente, durante la ricreazione buttava la merenda nel cestino e a Carla, che aveva sempre fame, sembrava uno spreco davvero mostruoso. 

Il papà di Maria Rita era carabiniere, spesso, la veniva a prendere a scuola in divisa, a Carla metteva soggezione in quell'uniforme nera dalle strisce rosse sui pantaloni. Maria Rita correva spensierata accanto a lui e Carla si ritrovava sola nell'andare a prendere l'autobus, le sembrava veramente che le mancasse una parte di sé. 

Maria Rita aveva un fratello, Piero, maggiore di quattro anni, del quale la ragazzina parlava sempre con la sua amica, le raccontava del suo rapporto con lui, molto stretto ma a volte anche conflittuale, come è spesso tra fratelli. Col tempo Carla aveva imparato a conoscere Piero attraverso Maria Rita. La sorella lo prendeva in giro per la sua cottarella per la vicina di casa, che lei, un po' gelosa, chiamava “la papera”, non si sa bene perché. Anche Piero conobbe Carla attraverso le descrizioni che le faceva la sorella riguardo alla sua amica di scuola, così con il tempo, Piero mandava a Carla, attraverso Maria Rita, dei bigliettini spiritosi, prendendola un po' in giro per avere il cuore impegnato da un certo Alfredo, che abitava in Abruzzo e col quale non aveva mai neanche scambiato un saluto. 

“Ci pensi?”, le diceva Maria Rita, “Se ti sposi mio fratello, diventeremo cognate”. Per lei un legame strettissimo, più che essere amiche. Carla ci rideva su, era una ragazzina e il concetto era più astratto che compreso.

Un giorno la classe delle ragazze fece una gita culturale al museo della Civiltà Romana, anche Piero vi era andato, con la classe del primo liceo. Maria Rita si era data appuntamento col fratello e Carla lo vide per la prima volta. Portava un impermeabile blu, un po' sovrappeso, come lei, un ciuffo di ricci rossi, occhi castani, tanto diverso dalla sorella, una manciata di lentiggini sul naso e sulle gote.

Dopo aver parlato con sua sorella, Piero rivolse un timido ciao a Carla. La ragazzina, vedendo quel ragazzone, che a lei sembrava tanto più vecchio e grande, si sentì piccola,  imbarazzata, lo salutò frettolosamente e non aprì più bocca, benché avesse scambiato con lui battute e bigliettini. Vederselo davanti, però, fu diverso, per lei era quasi un uomo.

La scuola media passò velocemente, nei tre anni le ragazze non si separarono mai. Quando Maria Rita mancava da scuola, Carla si sentiva persa, con le altre non aveva lo stesso rapporto. 

Alle superiori le due ragazze presero strade diverse. Si telefonavano spesso, stavano ore a raccontarsi quello che un tempo si dicevano in classe. Maria Rita frequentava il liceo scientifico, in una classe mista e le raccontava di quel ragazzo a cui piaceva; Carla l'istituto tecnico, ma tutto al femminile e conoscenze maschili non ne aveva. Ogni tanto Carla l'andava a trovare a casa, il loro rapporto era maturato insieme a loro, ormai erano adolescenti cresciute, i discorsi però restavano più o meno sempre gli stessi: le difficoltà a scuola, i voti, le materie ostiche e i ragazzi. Maria Rita aveva un gruppo di amici, qualche volta Carla usciva con loro, vecchie conoscenze delle medie che aveva ritrovato, nuovi amici conosciuti attraverso Maria Rita. In mezzo c'erano sempre i racconti su Piero, che andava all'università, che studiava tutto il giorno, chiuso in camera, dei suoi amici stretti che spesso passavano a trovarlo e che conobbe anche lei. A volte lui usciva dalla camera, con occhi arrossati e l'aria stanca, e veniva a salutarla in camera della sorella, due parole scambiate e spariva di nuovo. Carla lo considerava quasi un fratello maggiore, ma ne aveva sempre soggezione, tutti lo descrivevano come il cervellone di casa. Studiava fisica alla Sapienza, una materia che a lei, era sempre sembrata  incomprensibile e a scuola faticava a capirla. Dopo la maturità, le ragazze fecero scelte diverse, Maria Rita, sulle orme del fratello s'iscrisse all'università. Subiva l'aria di adorazione che tutti avevano per lui, probabile che si sentisse messa in ombra, alla fine ci mise qualche anno di troppo per laurearsi in scienze naturali. Carla invece non volle proseguire, troppo emotiva, pensava di non essere all'altezza per sostenere gli esami, suo padre, poi, non approvava quello che a lei sarebbe piaciuto. Lei amava molto le materie letterarie, l'arte, la cucina, ma lui insisteva col dire che bisognava scegliere qualcosa di adeguato agli studi intrapresi, che con quelle materie non ci avrebbe fatto nulla.

Qualche anno dopo finì per lavorare in una fotocomposizione, a modo suo, si prese una piccola rivincita, lavorare nel campo dell'editoria la metteva in contatto con la materia che aveva sempre amato, i libri e la letteratura. In quegli anni le due ragazze ripresero a frequentarsi con assiduità. 

Piero spesso si univa con il trio dei suoi amici più stretti, usciva tutti insieme, dopo lunghe trattative sul luogo in cui andare. Ognuna delle due ebbe le sue storie amorose. Per Carla durò poco e finì in un nulla. Maria Rita invece si immerse in un rapporto che durò anni ma non portò da nessuna parte. 

In un particolare momento della vita di Carla, quando era sola e senza nessuna voglia, al momento, di immergersi in una nuova relazione, l'amicizia tra lei e Piero si consolidò. Pian, piano l'uno scoprì l'altra, due persone che avevano sempre scherzato, si erano prese in giro, avevano avuto relazioni con altri, scoprirono di avere moltissimo in comune. Piero ormai laureato in fisica, cercava con fatica d'inserirsi nell'ambiente della ricerca e cominciò a lavorare al Cern di Ginevra. Spariva settimane, poche erano le occasioni per incontrarsi in comitiva.

Carla a volte restava con Maria Rita, a casa di lei, a chiacchierare, a volte vedeva altri amici  e uscivano tutti insieme. In quel periodo Piero cambiò atteggiamento nei suoi confronti. Si fece più vicino, l'ascoltava con trasporto, le faceva piccoli regali. Anche lei pensava a lui sempre più spesso, era un poco gelosa e non voleva ammetterlo neanche con sé stessa.

 Al capodanno con lui non era andata, lui aveva insistito, c'era una festa dove andava con i suoi inseparabili amici, ma i suoi genitori era molto severi e non acconsentirono a lasciarla andare, altri tempi, altra mentalità. Una domenica andarono al cinema, era il giorno della befana, c'era lui, uno dei suoi amici ma Maria Rita non andò. Carla si trovò al cinema, tra i due. Il film era su Lancilotto e Ginevra, c'erano scene cruente, lei finse di spaventarsi e gli prese la mano. Con molta lentezza i giorni passarono, lui partiva e tornava, il tempo lei lo trascorreva a chiedersi se il loro rapporto avrebbe potuto diventare qualcosa di più e ne era spaventata. Si era al punto che mancava un piccolo passo, per cambiare totalmente la vita di entrambi.

Dopo uno dei rientri di lui da Ginevra, si rividero un pomeriggio. Lei aveva citofonato a casa sua, con la scusa di cercare Maria Rita, che sapeva essere fuori, ma con la speranza che ci fosse lui, c'era.

L'accompagnò a casa a piedi, camminavano lentamente, l'emozione e il nervosismo di entrambi, si tagliavano con il coltello. Cercavano di scherzare, poi lui glielo disse, non esplicitamente, con timidezza le fece capire che l'amava. Lei aveva le mani ghiacciate, avrebbe voluto gridare che anche lei provava lo stesso, ma le uscì una frase che lo fece ridere. Lei disse: “Che ne sarà della nostra amicizia se ci fidanziamo? Se andasse male perderei un amico speciale”. Lui capì che lei era terrorizzata di affrontare il passo, e l'abbracciò. “Me lo dai almeno un bacio?”. Lei gli sfiorò la guancia e scappò via. 

Il grande passo era fatto. Due anni dopo si sposarono, il sogno della sorella di diventare cognate si era concretizzato, la vita però, non va mai come ci si aspetterebbe e con il tempo le due grandi amiche e cognate divennero due estranee, passando da liti e rancori, alla totale indifferenza.

Piero e Carla hanno avuto un figlio, sono ancora insieme più complici e legati che mai, dopo quasi quarant'anni.

mercoledì 28 ottobre 2020

Un rito secolare

 



E viene il giorno. Il sole riscalda appena la terra bagnata di rugiada. Una sottile nebbiolina si stiracchia sull'erba e sulle cime degli alberi. Una gocciolina d'acqua brilla, illuminandosi in un sorriso, prima di evaporare.

Da millenni il giorno della raccolta delle  olive è un rito, un lavoro duro, che odora di aspro e di sudore. Col passare dei secoli la tecnologia è venuta un poco in aiuto ma gli odori, i gesti sono gli stessi.

La pianta, carica delle drupe succose e lucide, piega i rami, quasi volesse porgerti quel fardello che essa non vuole più portare.

Si inizia al sorgere del sole. Le reti vengono gettate per una pesca miracolosa, dal frutto uscirà fuori oro liquido.

Si spargono le reti, si tirano come un immenso lenzuolo da stendere sul giaciglio erboso, sotto l'albero. Le dita passano tra i rami, pettinandone la chioma, e pian piano, con un piccolo rumore sordo le gocce nere invadono il suolo. Con le macchine elettriche, che aiutano il lavoro umano, si cerca di velocizzare, ma le spalle vibrano al peso della macchina, il lungo braccio si allunga verso i rami alti, non servono più le antiche scale di legno, i tascapane da riempire a manciate, le vesciche sulle dita delle mani nude che scorrevano tra ramo e ramo, si formavano per usura. Finalmente, al suolo cade una grandine di chicchi neri. Te li ritrovi negli stivali, nelle tasche, i capelli intrecciati a foglie argentee. La pianta tira un sospiro di sollievo, si stiracchia, finalmente libera dalla zavorra. É ora di ritirare la rete. Si alza da terra,  lentamente, dai bordi, si guidano le drupe come soldati in battaglia, tutte raggruppate insieme. Sono pesanti, non ci si aspetterebbe di averne così tante, erano tutte sparse qua e là, come puntini su una mappa. Il vento porta l'odore aspro, mediterraneo, nell'aria. Un profumo antico di lampade dalla flebile e tremolante luce, di balsami per le matrone romane, di manicaretti cucinati con amore, di calorie contate con riluttanza.

La pesca è stata abbondante, due braccia non bastano per alzare la zavorra, ci si fa vicini, ci si  danno istruzioni reciproche, un poco a destra, un poco a sinistra e via.  Il rumore risuona sordo, le olive cadono nella cassetta, la prima di una lunga serie, soddisfazione di un lavoro ben fatto. 

Si raduna la rete, la si trascina di nuovo e via, con un altra pianta, ancora e ancora, fino all'imbrunire, quando l'uomo e il sole, ormai stanchi, hanno bisogno di riposo. 

Dopo tanto lavoro, a volte di giorni, finalmente si va alla macinatura. Nel frantoio è un via vai di persone, di enormi casse, dove ognuno raduna le proprie olive e aspetta pazientemente che tocchi a lui. 

Si pesano, si rovesciano nella vasca che le lava e lascia a galla le foglie residue.

Il rumore assordante della mola riempie le orecchie, nell'aria un odore aspro e pungente, piccante oserei dire. La macchina tritura e spreme: è giunta l'ora. Un flusso di liquido color oro, fosforescente, riempe il recipiente, un tempo le giare in terracotta, ora domina il freddo e sterile acciaio.

 Goccia, a goccia scende un filo sottile; esso lega presente, passato e futuro. L'emozione sale, è come essere collegati alla madre terra che ti ha voluto fare un regalo, perché a volte è avara e non sempre elargisce. Se si adombra, per il male che le facciamo, ci nega inesorabilmente i suoi frutti, come madre severa. Noi, come figli disobbedienti, puntiamo i piedi, lei si adira con noi sempre più spesso. 

È notte fonda, i grilli sono stanchi di frinire, la luna pallidamente occhieggia, illuminando timidamente la strada del ritorno. Anche quest'anno abbiamo l'olio buono e niente ripaga la grande fatica più che assaporarne lentamente l'aroma pungente e piccante, un poco amaro, su un piatto di spaghetti fumanti: il grano e l'oliva i doni del Mediterraneo.